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1981: Il divorzio fra Stato e bankitalia

Ultimo Aggiornamento: 04/06/2018 12:12
26/04/2013 22:14
 
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Le origini della crescita del debito pubblico italiano: il pensiero di Alberto Bagnai
Come più volte ho scritto non dispongo di un'adeguata cultura in materia di economia - per la verità non ho mai studiato economia - tuttavia, prima di presentarvi un interessante passo tratto dal libro "Il tramonto dell'euro", che sto leggendo in questi giorni, mi sento di riproporre un mio semplice ragionamento presente nel post di apertura di questo topic.
Mi fa piacere che qualcuno, sicuramente più autorevole del sottoscritto in materia di economia, a distanza di tre mesi dal mio post, abbia pubblicato un libro nel quale in buona sostanza si conferma la validità della mia intuizione sulle vere origini della crescita del debito pubblico italiano. [SM=g6957]
marco---, 22/8/2012 18:34:

A riprova di quanto affermato in questo articolo ho costruito due grafici, nel primo ho riportato il "tasso di riferimento", ex TUS, nel secondo il rapporto percentuale debito/PIL e successivamente ho eseguito la sovrapposizione delle curve. Il divorzio tra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro è avvenuto nel luglio del 1981, deciso dal Ministro del Tesoro Beniamo Andreatta con una lettera all’allora Governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi, nella quale sollevava la Banca Centrale dall’obbligo di acquistare quei titoli di Stato che il Tesoro non riusciva a collocare altrove sul mercato. Fino al 1982 la sovrapposizione dei grafici evidenzia una relazione tra le due grandezze mentre, a partire da quell'anno, TUS e dibito/PIL proseguirono in maniera completamente disgiunta perché, come giustamente sottolinea l'articolo, a ogni asta l'operato del tesoro fu sottoposto al giudizio del mercato.

Tratto da Il tramonto dell’euro di Alberto Bagnai - pubblicato il 24/11/2012

Le buone intenzioni...
L’uomo politico autore di questa confessione un po’ inquietante è l’ex ministro del Tesoro Beniamino Andreatta (1928-2007). Il quale, mi affretto ad aggiungere, aveva, dal suo punto di vista e nelle circostanze storiche nelle quali si trovava a operare, delle ottime motivazioni. L’Italia, ricorda sempre lui, si trovava nell’urgenza della crisi determinata dal secondo shock petrolifero, che aveva determinato una fiammata d’inflazione (l’abbiamo vista nella figura 11 a pagina 72), difficile da gestire, secondo il ministro, a causa del “demenziale rafforzamento della scala mobile, prodotto dell’accordo fra Confindustria e sindacati confederati proprio nei primi mesi del 1975”, il quale “aveva talmente irrigidito la struttura dei prezzi, a tal punto che, in presenza di un raddoppio del prezzo dell’energia, anche una forte stretta da sola era impotente a impedire che un nuovo equilibrio potesse essere raggiunto senza un’inflazione tale da riallineare prezzi e salari ai costi dell’energia”. Sembra di capire che la soluzione del problema venisse cercata, dal ministro, nella teoria monetarista in voga all’epoca: quella secondo cui la moneta causa l’inflazione. Da questa teoria consegue che per controllare l’inflazione occorre e basta controllare l’offerta di moneta. Ne deriva quindi che la Banca centrale deve essere indipendente dal potere esecutivo, deve, in qualche modo, ostacolarlo, o quanto meno condizionarne anche la politica fiscale (come ammette lo stesso ministro), lesinandogli i finanziamenti. Questo in nome di un unico obiettivo, il controllo dei prezzi, un obiettivo che si presume essa possa gestire da sola, e al quale si presume abbia diritto di sacrificare tutti gli altri, costituendosi, come espressivamente dice il ministro, come un quarto potere dello Stato: il potere monetario. Questo il contesto storico, il contesto ideologico, e le motivazioni dichiarate, che necessitano però di un approfondimento. In particolare: siamo sicuri che il merito della disinflazione ricada sul divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia, o ci sono anche altri fattori che possono aver contribuito? E i costi del divorzio sono tali da giustificare i risultati conseguiti? E poi, la disinflazione a chi ha arrecato benefici? È vero quello che continuamente si sente ripetere, vale a dire che l’inflazione è la tassa più iniqua perché colpisce i salariati, determinando un calo del potere d’acquisto dei loro redditi? Le classi subalterne hanno beneficiato dal divorzio? E oggi, dopo la crisi, a livello internazionale, l’indipendenza della Banca centrale viene ancora considerata in modo unanime come un baluardo della stabilità economica? Sono domande cruciali, perché, lo ripeto, se non l’euro, certo la filosofia politica ad esso sottostante nasce dal divorzio. Ne è prova il fatto che il divieto di finanziamento monetario del fabbisogno diventa legge in tutta l’Eurozona con la ratifica del Trattato di Maastricht. È quindi essenziale apprezzare il fondamento (o la mancanza di fondamento) di questa decisione. Quelli che “il debito pubblico è esploso per colpa della spesa pubblica improduttiva...” Cominciamo intanto con l’apprezzare i costi che questa decisione ebbe. Come abbiamo visto nella figura 3 a pagina 30, il debito pubblico esplode negli anni Ottanta, raddoppiando in poco più di un decennio: l’idea che gli italiani in quel decennio siano improvvisamente diventati molto più corrotti e spendaccioni del solito è pittoresca e corroborata da coloriti aneddoti, ma è difficile da credere e da provare scientificamente, anche perché di aneddoti simili, ahimè, è costellata anche tutta la storia precedente e successiva (per non parlare dell’attualità). Che invece il divorzio sia stato determinante nell’esplosione del debito pubblico italiano, lo ammette tranquillamente lo stesso ministro Andreatta, il quale, da responsabile principale di questa decisione, avrebbe tutti gli interessi a minimizzarne i danni collaterali. Va qui apprezzata l’onestà intellettuale dello studioso, e anche l’impossibilità di coprire con una toppa un buco di queste dimensioni. L’evidenza dei fatti è conclamata: il debito italiano è esploso per colpa dell’innalzamento dei tassi d’interesse determinato dal divorzio, con buona pace di quelli che “la colpa è della spesapubblicaimproduttiva”.



Lo si vede bene nella figura 31, che riporta due misure del costo medio del debito pubblico italiano espresso in termini reali, sottraendo il tasso d’inflazione. Le due “sorprese” inflazionistiche degli anni Settanta, causate dagli shock petroliferi del 1973 e del 1979, avevano portato il costo del debito su valori negativi, attorno al -10 per cento. Il rendimento reale medio dal 1960 al 1980 era stato pari a circa il -1 per cento, un valore basso, ma non distante da quelli registrati nel Regno Unito (0.75 per cento) o negli Stati Uniti (1 per cento). La frattura determinata dal divorzio è evidente. Il tasso d’interesse reale aumenta immediatamente di due punti fra 1981 e 1982, poi si porta rapidamente su valori attorno al 5 per cento, arrivando addirittura a un picco attorno all’8 per cento nel 1992. L’impatto sulla spesa per interessi è notevole come si osserva nella figura 32. A partire dal divorzio (evidenziato dalla retta verticale tratteggiata) possiamo osservare tre fasi principali, evidenziate dall’ombreggiatura. Nella prima fase, dal 1981 alla crisi del 1992, la spesa per interessi decolla verticalmente, raddoppiando dai 6 punti di Pil del 1981 ai 12 del 1993 (ricordate che nell’anno precedente i tassi di interesse erano stati fortemente innalzati, nel tentativo di difendere la parità della lira nello Sme). Simmetricamente, il fabbisogno primario (cioè al netto degli interessi), scende a picco, passando dai 5 punti del 1981 ai -3 del 1993 (un fabbisogno negativo indica un avanzo, cioè lo Stato, al netto degli interessi, stava incassando più di quanto spendeva). I due movimenti si compensano, e quindi il fabbisogno complessivo rimane più o meno stabile attorno a una media di 11 punti di Pil. È in questa fase che il rapporto debito/Pil esplode, come abbiamo visto in figura 1, nonostante, al netto degli interessi, lo Stato sia diventato un risparmiatore netto. Attenzione: la linea tratteggiata che sale, e quella puntinata che scende, nella zona ombreggiata al centro della figura 32, non sono un mero arabesco, no, sono una cosa diversa: sono un conflitto distributivo. Se nel 1981 lo Stato dava il 5 per cento del Pil ai detentori del debito pubblico (sotto forma di spesa per interessi), e il 5 per cento del Pil alla collettività nazionale (sotto forma di spesa primaria netta), nel 1993, al termine del conflitto, lo Stato dava il 12 per cento del Pil ai detentori del debito, e prendeva il 3 per cento in termini netti dalla collettività nazionale (perché se lo Stato è in avanzo primario significa che i cittadini pagano di tasse più di quello che ricevono per servizi pubblici). E i detentori dei titoli del debito pubblico erano e sono per lo più le grosse istituzioni finanziarie. Chiaro, no? Il divorzio è anche la scelta di trasferire reddito dai contribuenti alle istituzioni finanziarie, una scelta che nelle parole del suo autore appare pienamente consapevole.



Lo sganciamento dallo Sme frena la dinamica dei tassi, e dal 1993 al 2002 la spesa per interessi prima si stabilizza e poi cala. Il fabbisogno totale crolla dai 9 punti del 1994 a un punto nel 2000, fino al 1996 per ulteriori aumenti dell’avanzo primario, e dal 1996 per la diminuzione della spesa per interessi. Questa dinamica favorisce il rientro del debito, che dai 120 punti del 1994 arriva ai 103 nel 2003. Nel frattempo la spesa per interessi si stabilizza attorno al 5 per cento del Pil, e il fabbisogno complessivo tende a crescere (con fasi alterne) seguendo il fabbisogno primario il quale, però, rimane sempre in territorio negativo (cioè rimane un avanzo).
Lo shock determinato dall’innalzamento degli interessi negli anni Ottanta è notevole e il suo riassorbimento in tempi successivi è stato ostacolato dal fatto che le manovre di austerità hanno compromesso la crescita del Pil.
[Modificato da marco--- 26/04/2013 22:22]
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