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L'euro senza Europa: l’incerto destino della moneta senza stato

Ultimo Aggiornamento: 26/07/2017 16:38
04/11/2012 22:16
 
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Una moneta cui, caso unico al mondo, non corrisponde alcuno Stato
Ringraziando stelafe per questa segnalazione.

L'euro senza Europa (di Marcello De Cecco)

Figlio del timore francese per la riunificazione tedesca, l’euro sconta oggi le mille contraddizioni dell’Unione Europea geopoliticamente acefala. La genesi di Maastricht. La Grecia spaventa, ma le chiavi dell’Europa stanno a Berlino. Ritorno all’euronucleo? Da ormai otto anni, i cittadini di quindici Stati europei (con la recente aggiunta di un sedicesimo, Cipro) spendono una moneta cui, caso unico al mondo, non corrisponde alcuno Stato. L’euro – che, come ogni moneta, è tra le massime espressioni della sovranità – continua a non avere un sovrano. Com’è possibile? E quali conseguenze produce questa situazione sulla moneta unica e sui paesi che l’hanno adottata? Il destino dell’euro come moneta orfana di un governo è inscritto nel suo dna. Come altre unioni monetarie succedutesi nella storia (l’Italia e la Germania ottocentesche o, ancora, la Germania dei primi anni Novanta), quella europea non è stata dettata da ragioni tecniche, bensì da logiche squisitamente politiche. In particolare, essa è figlia della volontà dell’allora presidente francese, François Mitterrand, di ancorare alla Francia e al resto del continente una Germania che, dopo la riunificazione, minacciava di ricreare una propria politica di potenza al centro dell’Europa, in virtù del proprio primato economico e demografico e dell’indiscussa primazia del marco. Da qui il progetto, perseguito in fretta e furia, di una divisa unica che imbrigliasse la potenza tedesca, rendendola inoffensiva, ma che escludesse l’unione politica. Già, ma per fare una moneta cui corrisponda una sovranità monetaria occorre, appunto, un sovrano. Ovvero, uno Stato. Di questi, nell’Europa post-1989, ve ne erano (e continuano a esservene) molti, anzi troppi per una moneta sola. A chi andava imputata la sovranità della divisa europea? Per non sbagliarsi, la risposta fu: a tutti. Cioè, a nessuno. Anche perché, se l’euro fu fatto, in un certo senso, contro la Germania, con questa fu comunque necessario fare i conti, al momento di scrivere le regole della nuova «casa europea». E Bonn, fra l’altro, non avrebbe mai acconsentito a buttare alle ortiche la tradizionale autonomia della Bundesbank dal governo, consegnando la futura Banca centrale europea (Bce) al controllo di un’autorità politica. Per difendere questo principio, la Germania era pronta a rinunciare in partenza alla moneta unica; ma una moneta europea senza la principale potenza economico- demografica dell’Europa sarebbe stata semplicemente inconcepibile. Poco importa se, in realtà, la celebrata indipendenza della Bundesbank sia un falso mito, dato che la Banca centrale tedesca è stata istituita con legge ordinaria del parlamento tedesco — il quale, sempre con legge ordinaria, può teoricamente abolirla. L’idiosincrasia teutonica, storicamente non del tutto immotivata, per una correlazione diretta e palese tra governo e Banca centrale ha fatto premio su qualsiasi altra considerazione. È per questo che le funzioni della Banca centrale europea sono materia costituzionale, ovvero sono fissate nel Trattato di Maastricht, istitutivo dell’Unione Europea e della sua moneta. E la Bce è organo di rilevanza costituzionale. 2. Curioso testo, il Trattato di Maastricht, le cui pagine riflettono appieno la genesi squisitamente franco-tedesca del progetto monetario europeo. Ai princìpi illuministici, mutuati direttamente dalla rivoluzione francese, si alternano passaggi di tecnica monetaria, che risentono fortemente delle teorie di Milton Friedman e della scuola di Chicago, particolarmente in voga negli ambienti economici e finanziari tedeschi. La cui stella polare era e resta tutt’ora un sacro terrore dell’inflazione da cui discende una concezione deflazionistica del ruolo della Banca centrale, il cui mandato consiste essenzialmente nel tenere sotto controllo l’andamento dei prezzi, badando a che non superi il 2% annuo. Anche se, come nel caso della crisi devastante da cui stentiamo a risollevarci, il mondo va in tutt’altra direzione. Che questa politica deflazionistica sia troppo rigida e, soprattutto, scarsamente compatibile con le economie dell’Europa meridionale, storicamente inefficienti e avvezze alle svalutazioni competitive, non è mai stato un segreto. Il fatto è che essa, al pari della moneta cui è stata applicata, è a sua volta frutto di dinamiche squisitamente politiche, questa volta tutte interne alla Germania. Qui la grande famiglia democristiana, architrave della vita politica nazionale, assiste da tempo alla coabitazione forzata dei cristiano-democratici (CDU) e dei cristiano-sociali (CSU) bavaresi. Oggi come vent’anni fa, la CSU è espressione di un Land, la Baviera, ricco e profondamente diffidente verso le virtù fiscali del governo centrale. Tale diffidenza si esprime, tradizionalmente, in un’attenzione ossessiva all’inflazione, come antidoto agli «sprechi» di Berlino. Nei primi anni Novanta, peraltro, tale dinamica era ulteriormente accentuata dalla competizione, interna alla CSU, tra Theodor Waigel, ministro delle Finanze di Helmut Kohl e grande protagonista della riunificazione, ed Edmund Stoiber, successore di Waigel alla guida del partito e inveterato fustigatore dell’indisciplina fiscale e monetaria, come ogni buon politico bavarese che si rispetti. Manco a dirlo, al tempo il bersaglio principale dei suoi strali era l’avversario Waigel, che nella prestigiosa ma non facile veste di ministro dell’Economia ed esponente di punta della CSU era particolarmente sensibile a queste critiche e vitalmente interessato a dimostrarne l’infondatezza. A ciò si aggiungano le pretese di rivalsa di una Bundesbank che aveva dovuto accettare a denti stretti (sacrificando addirittura inutilmente il suo governatore, Karl Otto Pöhl, che si era dimesso) la blasfema parità tra il marco orientale e la gloriosa Deutsche Mark dell’Ovest e che, nella fase di concezione di Maastricht, era determinata a imporre alla nuova Bce la sua ferrea ortodossia monetaria. 3. Non è chiaro fino a che punto, al tempo, tali dinamiche fossero presenti agli altri establishment europei. A giudicare dalla loro condotta, non molto. Il grande errore delle classi politiche europee, infatti, è stato quello di considerare il Trattato di Maastricht come un accordo politico non solo nella sua genesi, ma anche nella successiva applicazione. Un accordo, cioè, la cui attuazione si sarebbe prestata a interpretazioni talmente flessibili da riuscire, in pratica, ad aggirarne la lettera. Tale convinzione, particolarmente diffusa tra gli Stati membri fiscalmente più indisciplinati dell’Unione monetaria, ha però trascurato un dato fondamentale: la natura stessa della Bce. Questa è un organismo essenzialmente tecnico e, a differenza delle altre istituzioni comunitarie, è di norma piuttosto efficiente, perché dotata degli strumenti necessari a svolgere appieno i propri compiti e di un personale, per lo più proveniente da Banche centrali, molto selezionato e abituato a elevati livelli di operatività. Lo si è visto, da ultimo, durante questa crisi: a fronte dell’azione farraginosa della Federal Reserve americana, costretta da strumenti normativi datati ad agire tramite le grandi banche d’affari, corresponsabili del disastro finanziario, l’azione della Bce si è rivelata inaspettatamente tempestiva ed efficace, anche grazie agli strumenti molto moderni di cui dispone per rapportarsi direttamente alle grandi banche europee. Ovviamente, l’indipendenza della Bce dalle autorità politiche europee e statali ha imposto che i salvataggi delle banche nazionali in difficoltà fossero effettuati dalle singole autorità nazionali; il che è puntualmente avvenuto in molti paesi e innanzitutto in Germania, il cui sistema bancario ha sofferto non poco. Non avendo problemi in casa (la Germania il suo boom immobiliare l’aveva avuto negli anni Novanta e i prezzi degli immobili, in anni recenti, sono addirittura diminuiti), le banche ipotecarie e le Landesbanken, le banche centrali dei Länder, se li sono andati a cercare altrove. Hanno così investito qualcosa come 400 miliardi di euro nel mercato Usa dei mutui subprime, grazie ai buoni uffici delle banche d’investimento inglesi e americane e al prolungamento di cinque anni, negoziato tra lo Stato tedesco e il commissario europeo alla concorrenza, professor Monti, di una garanzia statale che, alla fine, è costata cara al contribuente tedesco. L’interventismo nazionale non ha però tolto il fatto che, a dispetto delle iniziali illusioni dei banchieri centrali europei, gelosi delle loro prerogative, la Bce abbia dato prova di sufficiente autonomia decisionale nell’esecuzione del suo mandato. Il quale, come dimostra anche un’esperienza quasi decennale, consiste sostanzialmente nell’applicare la cauta politica monetaria della Bundesbank all’intera Eurozona. Del resto, che la Bce abbia sede a Francoforte vorrà pur dire qualcosa. Da un punto di vista non tedesco (cioè: francese), paradossalmente, tanta efficienza non è frutto di lungimiranza, ma dell’esatto contrario. Nella più classica ottica funzionalista di stampo monnetiano, vecchia quanto il processo di unificazione stesso, la Bce era concepita come un passaggio intermedio: nell’attesa che le necessità di governo dell’euro – ovvero il bisogno di formulare una politica economica comune — determinassero, darwinianamente, la nascita di un governo comunitario, la Banca centrale avrebbe svolto una funzione suppletiva, facendo le veci del futuro sovrano politico. Ciò, tuttavia, contrasta con la natura eminentemente tecnica della Bce: la quale, infatti, nell’amministrazione del Trattato di Maastricht ha finito per prescindere dalla genesi geopolitica dello stesso, applicandone meccanicamente i criteri. Forte, in questo, della costante tutela tedesca, che ha messo in questione l’indipendenza politica della Banca centrale stessa. Questa logica, strettamente geopolitica, aveva forse qualche chance di funzionare nell’ambito di una cosiddetta area valutaria ottimale, ovvero in un insieme di paesi – corrispondenti, grosso modo, all’area d’influenza storica del marco – accomunati da economie e specializzazioni produttive simili, o fortemente complementari. Sin dall’inizio, invece, il rigore teutonico si è scontrato con un’altra logica, anch’essa geopolitica, che ha governato la scelta dei paesi da includere nella nuova area valutaria. Da cui era geopoliticamente impossibile escludere l’Italia, in quanto Stato membro fondatore della Cee; e da cui era parimenti impossibile tener fuori la Grecia, la cui immediata partecipazione all’esperimento monetario è stata sostenuta dagli Stati Uniti – e, di riflesso, dalla Gran Bretagna – in base a motivazioni prettamente strategiche (la Grecia ospita importanti basi militari americane, indispensabili in un momento di rinnovato interesse statunitense per lo scacchiere mediorientale). La successiva inclusione nell’Ue (e, in prospettiva, nell’euro) dell’Europa centro- orientale è stata anch’essa una decisione ampiamente sostenuta al di là dell’Atlantico, in funzione anti-russa, e sostanzialmente imposta a una Germania che, nelle sue scelte strategiche fondamentali, risulta ancora fortemente condizionata dal volere di Washington. Una Germania (e dunque un’Europa) a sovranità limitata, com’è forse inevitabile per chi ha perso due guerre mondiali nel giro di trent’anni. Ma se al principio degli anni Novanta l’America temeva che l’Europa, con al centro una Germania riunificata, potesse divenire un concorrente temibile, oggi ha piuttosto il problema contrario: l’ampliamento dell’Ue ne ha praticamente paralizzato i processi decisionali e ne ha reso strutturalmente ingovernabile la moneta. Dal punto di vista economico, tuttavia, la Germania ha visto l’allargamento come una possibilità di tornare all’antico modello della Mitteleuropa. Il quale, in effetti, è stato praticamente ricreato, mediante i processi di delocalizzazione produttiva e adeguamento alle sfide della globalizzazione. 4. La crisi greca ha messo brutalmente a nudo tutte queste contraddizioni. Ovviamente, il quasi-default della Grecia è frutto, in primis, del modo in cui Atene (non) governa le proprie finanze, ma la gestione del problema a livello europeo sta rivelando quanto fosse velleitaria l’idea che la necessità (di un governo dell’euro) avrebbe creato l’istituzione (un governo europeo, appunto). Non solo questa istituzione non è alle viste, ma il mix deleterio di rigida ortodossia – in base alla quale la Grecia non può fallire, perché ciò rappresenterebbe uno smacco geopolitico inaccettabile per l’Europa – e mancanza di coordinamento – tale per cui, alla fine, ad aiutare Atene saranno i singoli governi europei e l’Fmi (leggi: gli Usa), non l’Ue in quanto tale – sta favorendo la grande speculazione. Che, mentre scommette sul default greco, facendo impennare i tassi d’interesse sul debito ellenico, si prepara a fare altrettanto con gli altri anelli deboli della catena. Chi sarà il prossimo? Il Portogallo? La Spagna? L’Irlanda? O magari l’Italia? Questa estrema incertezza, oltre a rendere assai arbitraria e dunque difficilmente prevedibile la dinamica di un eventuale effetto domino, sta affossando l’euro, che negli ultimi mesi ha perso terreno rispetto al dollaro. Nell’immediato, la debolezza della divisa europea preoccupa in particolare l’amministrazione americana, insediatasi col fermo proposito di svalutare il dollaro per favorire il made in Usa e ora, ironia della sorte, alle prese con la situazione opposta. Viceversa, fa felici gli esportatori tedeschi e, ancor di più, quelli italiani, mediamente meno competitivi dei primi. Tuttavia, nel medio termine, i danni geopolitici per l’Europa e per l’euro, soprattutto in termini di credibilità, potrebbero essere notevoli. Questa non è una prospettiva rosea, specialmente per una valuta che, suo malgrado, è diventata la moneta di riserva alternativa al dollaro: non tanto per la sua affidabilità intrinseca, quanto perché, al pari del biglietto verde e a differenza dello yuan/renminbi cinese, è lasciata libera di fluttuare sui mercati e, pertanto, è divenuta bersaglio della speculazione internazionale. Tale situazione, peraltro, appare destinata a durare a lungo, dal momento che le autorità cinesi non possono permettersi di smantellare i controlli valutari: il rafforzamento dello yuan/renminbi che verosimilmente ne deriverebbe, danneggerebbe l’export e colpirebbe gli interessi dei preziosi investitori stranieri. In particolare, la gigantesca diaspora cinese potrebbe approfittare di una maggiore libertà di movimento dei capitali per entrare e uscire dallo yuan/renminbi, facendolo oscillare e trasmettendo le oscillazioni all’economia reale cinese. La quale, essendo in misura considerevole ancora di Stato e pianificata, rischierebbe di non reggere l’impatto speculativo. Certamente, sulla deludente performance europea pesano fattori contingenti. La Germania ha affrontato l’emergenza greca alla vigilia delle elezioni nel Nord Reno- Vestfalia, il Land più popoloso del paese (18 milioni di abitanti), le cui elezioni regionali equivalgono a una prova generale delle elezioni politiche federali. In Renania la disoccupazione è al 9% e anche lì è stato massicciamente applicato il Kurzarbeit, il razionamento del lavoro a spese dello Stato, che ha permesso alle imprese di non licenziare nessuno o quasi, ma con notevole costo per il bilancio pubblico e per i lavoratori coinvolti. Attualmente, la Germania ha un deficit di bilancio quale non si vedeva dai tempi della riunificazione e, nel 2009, il suo tasso di crescita è precipitato a livelli negativi. In Renania, la coalizione al governo fa fatica a tener testa a una ripresa socialdemocratica e al montare dei Verdi, mentre la Sinistra (die Linke) resta un’incognita. In queste condizioni, non stupiscono le esitazioni di Angela Merkel e dei suoi colleghi di governo di fronte ai problemi finanziari della Grecia. In un’Europa a 27, però, le elezioni sono un fatto tutt’altro che raro, pur limitandosi ai paesi che contano. E comunque, a prescindere dalle vicende politiche, la Germania sconta i paradossi della propria ortodossia mercantilistica, che le impone di esportare e di mantenere un sostanzioso attivo commerciale, a spese, inevitabilmente, di qualcun altro. Ora, dal momento che il principale partner commerciale dell’America (grande importatore par excellence) è la Cina, che il Giappone stenta a riprendersi dal suo decennio perduto, che le altre economie (ri)emergenti (Brasile, Russia, India) hanno capacità d’importazione ancora limitate e che, di conseguenza, il 90% dell’interscambio commerciale della Germania è con i paesi dell’Ue, non è difficile capire chi sia questo qualcun altro. La verità, per quanto sconveniente, è che un’Europa di soli probi è impossibile: per una Germania fiscalmente virtuosa e competitiva devono esservi una Grecia, una Spagna o un Portogallo ansiosi di importare senza badare troppo a spese. Ma, su queste basi, quanto può durare l’euro? Essendo una creatura essenzialmente tedesca, durerà fin quando vorrà la Germania. In questo momento, quella che abbiamo di fronte è una Germania profondamente indecisa, che non sa ancora bene cosa vuol fare. Non è però da escludere che, in un futuro non troppo lontano, Berlino decida che l’esperimento monetario europeo è finito e che la cosa migliore sia ritornare alla sua vecchia area d’influenza monetaria, magari sostituendo il marco con un euro a circolazione limitata, per rendere l’operazione più presentabile. In un’ottica comunitaria, sarebbe un ritorno in grande stile alla logica del nucleo duro, dopo la sbornia dell’allargamento a oltranza. Solo che, questa volta, l’euronucleo escluderebbe l’Italia e i suoi vicini mediterranei, per abbracciare i paesi economicamente più affini alla Germania: l’Austria, il Benelux, la Slovacchia, magari la Svezia e la Danimarca. In un simile scenario, la grande incognita sarebbe costituita dalla Francia: paese che negli ultimi anni ha subìto un profondo processo di trasformazione industriale, che l’ha portata a integrarsi sempre più con l’economia tedesca. Ciò che fino a qualche tempo fa era impensabile, dunque, oggi appare possibile, addirittura probabile. Recita una maledizione cinese: possa tu vivere in tempi interessanti. I nostri, certamente, lo sono.
[Modificato da marco--- 04/11/2012 22:24]
02/06/2013 15:02
 
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Giuliano Amato Confessa:"Gli Americani ci avevano avvertito che l'euro sarebbe fallito" (Pubblicato in data 30/mag/2013)



Tratto da: Lezioni dalla crisi (12 video) di Giuliano Amato
[Modificato da marco--- 23/01/2015 19:12]
11/10/2015 10:10
 
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Lo sapete che il capo economista della Bce dice che l’euro non funziona? (Fonte: formiche.net - di Tino Oldani - 11/10/2015)

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori, pubblichiamo l’articolo di Tino Oldani uscito sul quotidiano Italia Oggi

Più che una notizia, sembrava uno scherzo. “L’euro non funziona, parola del capo economista della Bce”: così il 2 ottobre il sito Wall Street Italia titolava un breve articolo in cui si spiegava che Peter Praet, chief economist della Banca centrale europea, nel corso di una conferenza in Germania, aveva spiegato che, da quando è stata introdotta la moneta unica, l’economia dell’area euro è andata di male in peggio. Tesi suffragata da una serie di grafici dettagliati, in cui si confrontano Usa ed Europa, e dove quest’ultima è perdente su tutta la linea.

LE INEVITABILI DOMANDE

E’ mai possibile che un dirigente di primo piano della Bce, addirittura il capo economista, disegni un quadro così negativo dell’euro? E’ mai possibile che lo faccia mentre Mario Draghi, numero uno della Bce, ha appena sostenuto davanti al Parlamento europeo che “la ripresa procede in modo graduale”, grazie anche al quantitative easing da 60 miliardi al mese? Sembrava logico aspettarsi una smentita, che però non è arrivata. E questo è davvero strano.

CHI PARLA

Peter Praet, 66 anni, economista belga, non è un avversario di Draghi dentro la Bce, come viene invece considerato Jens Weidmann, presidente della Bundesbank. Anzi, è stato proprio Draghi a nominarlo capo economista il 3 gennaio 2012, preferendolo ad altri candidati più quotati, come il tedesco Jorge Asmussen e il francese Benoit Coeré. Non solo: Draghi è ormai nella storia dell’economia grazie al suo celebre “whatever it takes” in difesa dell’euro. Eppure Praet sostiene che l’euro è stato un fallimento, e non lo dice in privato, nel chiuso di una stanza, ma in pubblico. E la sua conferenza in Germania, davanti alla BVI Asset Management, oltre che da Wall Street Italia, è stata raccontata per filo e per segno dal sito Wolf Street, che pubblica i grafici assai eloquenti, basati su dati macroeconomici, con i quali Praet ha inteso dimostrare l’impatto negativo dell’euro sull’economia europea.

I GRAFICI, LA SINTESI

Le aspettative a cinque anni di crescita dell’economia europea sono continuamente diminuite da quando è stata introdotta la moneta unica, scendendo da una crescita del 2,7% nel 2001 all’attuale 1,4%. Tra le cause, Praet sottolinea il continuo decremento del livello di produttività, che ora è più bassa di quella del 2007 e registra uno scarto quasi incolmabile rispetto alla produttività Usa. Il grafico relativo è impressionante: fatta eguale a 100 la produttività del 1995, in venti anni la curva Usa è salita a 120, mentre l’eurozona è rimasta ferma a quota 105. Un gap, sostiene Praet, dovuto a vari fattori, ma principalmente al fatto che, nonostante l’abbondante liquidità monetaria a costo zero, le imprese europee, con l’eccezione della Germania, non investono abbastanza con l’obiettivo di una maggiore produttività, o non investono affatto. Non solo. Anche i prestiti delle banche alle imprese, crollati nel 2008 quando iniziò la crisi finanziaria, non si sono ancora ripresi, e stentano perfino in Germania, nonostante i 60 miliardi mensili del quantitative easing della Bce.

LA DISOCCUPAZIONE (ANCHE FRANCESE)

Di conseguenza, spiegano i grafici di Praet, la disoccupazione è cresciuta in tutta l’Europa, con picchi del 22% in Spagna e del 25% in Grecia. Soltanto pochi Paesi (Germania, Austria, Lussemburgo) hanno tassi di disoccupazione molto bassi, che incidono sulla media europea, riducendola al 10,5% (la stessa della Francia), che è pur sempre un dato a due cifre: “an unmitigated fiasco”, commenta Praet, visto che Italia, Spagna, Portogallo, Slovenia e Irlanda continuano ad avere una disoccupazione superiore alla media Ue, e dati ben peggiori in quella giovanile.

DETTAGLIO INTERESSANTE

Nell’analisi di Praet, colpisce l’enfasi posta sull’elevata disoccupazione. Per statuto, la Bce, a differenza della Fed Usa, ha come unico obiettivo la stabilità dei prezzi, che dovrebbero oscillare intorno al 2%, e non dovrebbe porsi il problema della piena occupazione, che è invece un obiettivo primario per la Fed Usa. Nelle sue interviste, il tedesco Weidmann non manca mai di ribadire che l’occupazione è un problema di cui devono occuparsi i governi, e non la Bce. Eppure Praet, con il suo intervento, fa capire che la Bce di Draghi vorrebbe dare peso anche alla disoccupazione per calibrare i suoi interventi, in linea più con la dottrina keynesiana studiata in gioventù a Roma che non con le tesi tedesche sull’austerità. Una novità doppiamente interessante se si considera che il capo economista della Bce, per dirlo, ha scelto una conferenza in Germania.

QE AL RADDOPPIO?

Così, mentre Weidmann comincia a tirare il freno sul quantitative easing, e rimprovera a Draghi una politica troppo espansiva, che rischia di indebolire la spinta riformista dei governi nazionali (intervista recente alla Suddeutsche Zeitung), sul fronte opposto c’è chi spinge per estendere nel tempo l’attuale politica della Bce. Tanto che Standard & Poors si dice favorevole all’ipotesi di raddoppiare l’importo del quantitative easing, portandolo da 1,2 a 2,4 trilioni di euro, estendendo i 60 miliardi mensili oltre il termine previsto all’inizio (settembre 2016) fino a metà del 2018. Il tutto nella speranza che il cavallo cominci a bere, gli investimenti salgano e la disoccupazione scenda. Altrimenti, il fallimento dell’euro non sarà solo un tema per dotti convegni, ma una tragica realtà.
26/07/2017 16:38
 
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L'ECONOMIA SPIEGATA FACILE: La spesa a deficit
L'ECONOMIA SPIEGATA FACILE: La spesa a deficit (Pubblicato il 14 gen 2014)

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