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Linea editoriale

Ultimo Aggiornamento: 31/01/2009 01:32
09/01/2009 15:04
 
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Crisi, la scorciatoria d'incolpare i media

Il giorno in cui i tedeschi dichiararono guerra a Mosca, Franz Kafka annotò nel suo diario: «Questa mattina la Germania ha dichiarato guerra alla Russia - oggi pomeriggio lezione di nuoto». Perfino in uomini di straordinario talento - e a maggior ragione in mezzi di comunicazione normali o mediocri - la capacità di cogliere le conseguenze storiche degli eventi, nel momento in cui essi accadono, può essere debole. La consapevolezza di ognuno di noi di fronte a fatti epocali, tanto più se indesiderati, è annebbiata dalla distanza tra l'esperienza quotidiana e l'astrazione. Quando l'informazione deve rappresentare fenomeni tutt'altro che quotidiani, come in questi mesi in cui racconta "la crisi del capitalismo", si crea così attorno ad essa un cortocircuito, tra allarmismo e credibilità, che oggi si riassume in questa frequente domanda: non sono forse i media i responsabili della crisi globale?

Fra tanti clamorosi fallimenti di finanzieri o analisti, fra tante irresponsabilità di politici e supervisori, può sembrare perfino una domanda provocatoria. Invece è senso comune che il linguaggio ad effetto dell'informazione e i titoli sulla fine del mondo conosciuto, abbiano modificato la nostra percezione della realtà creando un clima di depressione non solo psicologica. Secondo un sondaggio, il 77% degli americani è convinto che i media abbiano aggravato la crisi. In Italia il risultato sarebbe forse ancora più netto. Ma questa sbrigativa condanna dei media offre una scorciatoia, francamente rozza, all'analisi che circola nei Palazzi e che recita con tono consolatorio: se non fosse per i media, in Italia le cose andrebbero bene.

Le responsabilità dell'informazione non vanno sottovalutate. Dagli studi sulle aspettative e dalla "critica di Lucas" sappiamo che anche i soli annunci di cambiamenti di politiche modificano i parametri degli attori economici, fino a vanificare l'azione politica. Chi governa ha quindi un interesse a "gestire" le aspettative che si producono attraverso l'informazione. Non per forza con intenti manipolatori. Toni sensazionalistici o cattive capacità di analisi, comuni a una maggioranza dei media, possono creare infatti reazioni abnormi nell'opinione pubblica. Il paradosso della crisi attuale, tuttavia, è che né il sensazionalismo, né le cattive previsioni nascono dai media. E perfino le reazioni d'allarme sono più vive nei banchieri, tuttora restii a far circolare il credito, o nei Governi - cioè in chi non necessita dei media per informarsi sullo stato del mondo - che non nei comuni cittadini, ancora disposti a spendere il proprio reddito ed evidentemente poco inquietati dai media.

L'esempio madornale di cattiva previsione avvenne nel settembre scorso dopo l'ultima riunione del Fondo monetario, quando banchieri centrali e uomini di governo annunciarono: «Il peggio della crisi è passato». Solo pochi giorni dopo Washington avrebbe lasciato fallire la banca Lehman. Nelle settimane successive alcuni capi di Stato e ministri lanciarono allarmi sulla «fine del capitalismo» e sull'arrivo di una Grande Depressione. L'incapacità di prevedere dimensione e orizzonte temporale della crisi è la prova che ciò che sta avvenendo è un'eccezione al sistema che richiede uno sforzo di comprensione superiore a quello di un ciclo economico. La crisi infatti è stata costruita attorno a un meccanismo al contempo semplice e mostruoso: leve finanziarie, cioè debiti, abnormi, tali da sollevare la realtà finanziaria da quella reale.

Questo "distacco dalla realtà" rende ora molto difficile l'esercizio di razionalizzazione. L'incertezza e la debolezza delle analisi sono tali che ognuno sente di navigare in un oceano privo di sponde e di approdi. E in tali circostanze, quando il numero dei problemi supera quello delle soluzioni, si crea ciò che gli psicologi chiamano una dissonanza cognitiva, che induce a negare i problemi o a irritarsi per gli allarmi. In fondo più sappiamo, osservava in altro contesto Karl Popper, e più cresce anche ciò che non sappiamo. Così c'è chi trova quasi una consolazione nell'ignoranza e nel rifiuto dell'informazione.

La critica ai media nasce in particolare da un inganno sulla natura solo americana della crisi. Se il problema fosse solo dell'economia Usa, anche una depressione che togliesse in due anni il 5% del Pil agli Stati Uniti avrebbe un effetto diretto di solo lo 0,3% sul Pil europeo. Già ora invece assistiamo a revisioni al ribasso di oltre un punto all'anno della crescita nei nostri Paesi. La falsa spiegazione di questo effetto tanto negativo della crisi è appunto che i media trasferiscono la paura americana nell'opinione pubblica europea, amplificando di molto l'effetto diretto. Ma la realtà è purtroppo diversa: come sappiamo, il 40% delle attività tossiche create negli Stati Uniti si trovava nei bilanci delle banche europee. La leva finanziaria dell'inglese Barclays o di Bank of America era simile e prossima a 100 euro di attività per uno di capitale, così come Citigroup e Deutsche Bank erano similmente vicine a una leva di 60-70. Gli eccessi del mercato immobiliare americano si ritrovano anche in alcuni mercati europei. Sostenere che il problema è trasferito dai media è un escamotage per nascondere che anche in Europa alcuni sistemi economici sono fondati sul debito. In Italia in particolare sul debito pubblico.

Proprio la fragilità pubblica dell'Italia, nella sua situazione finanziaria così come nella vita politica che si esprime quotidianamente attraverso televisioni e giornali, offre probabilmente la spiegazione della risposta virtuosa sia delle banche italiane sia delle famiglie, nonché della scarsa fiducia nei media: famiglie e banche hanno dovuto mantenere condotte prudenti, poco inclini ai debiti, vivendo in un ambiente-paese già troppo caratterizzato da fragilità pubbliche. In tal caso, se la società italiana fosse caratterizzata da questa diffidenza del privato nei confronti del pubblico, i media, che sono uno specchio ossessivo della vita politica italiana, soffrirebbero di scarsa credibilità non perché troppo dissonanti rispetto all'ottimismo richiesto dal Governo nel superamento della crisi, ma probabilmente perché troppo ossequiosi con chi ha potere economico o politico quando le crisi sono ancora lontane.
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