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La crisi economica sara' molto piu' dura e lunga di quella del 1929

Ultimo Aggiornamento: 09/06/2013 09:48
22/01/2009 11:19
 
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Il picco comincera' nel 2012, secondo molti analisti
La crisi economica sara' molto piu' dura e lunga di quella del 1929, il picco comincera' nel 2012, secondo molti analisti

...Pensiamo che nei prossimi mesi le economie di tutto il mondo, dovranno riposizionarsi a livelli molto più bassi, stimiamo del 30-40% rispetto ai livelli toccati recentemente.

Secondo i più avveduti, per esempio, i prezzi delle case, ove venissero artatamente mantenuti alti dagli investimenti bancari e assicurativi, provocherebbero nel medio termine, una nuova valanga al ribasso e perdite bancarie da capogiro entro pochi anni..

Il prezzo degli alloggi dal 1973 ad oggi è lievitato a parità di condizioni, del 3000% con punte del 4000-4500%, capirete che questa è stata una anomalia assoluta.

Se da noi i subprime non sono esplosi in modo eclatante, lo si deve semplicemente al fatto che la maggioranza degli italiani che si sono avvicinati all’acquisto della casa, hanno rinunciato alla bella vita senza perdere di vista la situazione economica individuale e complessiva.

Per chiudere, quindi, vorremmo essere ottimisti, senza per questo lasciarci andare alle facezie di certi personaggi politici ed economisti da strapazzo che, per mero calcolo politco ci invitano tutti i giorni a fare le cicale, dimenticando le formichine che spesso hanno salvato dalla catastrofe il popolo italiano...
[Modificato da marco--- 09/06/2013 09:22]
04/09/2009 10:31
 
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Ocse: la crisi è finita (Fonte: iltempo.ilsole24ore.com - 04/09/2009)

I grandi istituti di previsione sono d'accordo. Dalla Bce all'Ocse, dalla Fed al Fondo Monetario internazionale, tutti concordano sul fatto che la recessione economica che ha colpito il pianeta in modo superiore alla grande crisi degli anni Trenta, sta per finire...

Ora accettano il parallelismo con la crisi del 1929 sostenendo che ha colpito più duramente e... (miracolosamente) la crisi è già stata risolta! [SM=g6963]

Marco
04/09/2009 10:43
 
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Re:
marco---, 04/09/2009 10.31:

Ocse: la crisi è finita (Fonte: iltempo.ilsole24ore.com - 04/09/2009)

I grandi istituti di previsione sono d'accordo. Dalla Bce all'Ocse, dalla Fed al Fondo Monetario internazionale, tutti concordano sul fatto che la recessione economica che ha colpito il pianeta in modo superiore alla grande crisi degli anni Trenta, sta per finire...

Ora accettano il parallelismo con la crisi del 1929 sostenendo che ha colpito più duramente e... (miracolosamente) la crisi è già stata risolta! [SM=g6963]

Marco




eh, beata innocenza...

...de chi ce crede, che chi scrive lo sa...


il fatto e' che il crollo del 1929 e la grande depressione sono due cose diverse, correlate, si, ma...








se ne usci' veramente solo con la WWII, che famo, ce arjocamo?

[SM=g7600] [SM=g7728] [SM=g7600]


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04/09/2009 11:10
 
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Re: Re:
laplace77, 9/4/2009 10:43 AM:

...se ne usci' veramente solo con la WWII, che famo, ce arjocamo?

[SM=g7600] [SM=g7728] [SM=g7600]

Brutta storia, purtroppo vera perché crisi e guerre sono intrinsecamente legate, in questo senso spero davvero che non possa ripetersi qualcosa (anche solo) di simile.

Marco
04/09/2009 11:17
 
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Re: Re: Re:
marco---, 04/09/2009 11.10:

Brutta storia, purtroppo vera perché crisi e guerre sono intrinsecamente legate, in questo senso spero davvero che non possa ripetersi qualcosa (anche solo) di simile.

Marco




aggiungici che 6-10 miliardi di persone, tutte che vogliano consumare come gli ammmmmericani o come noi europei, questo pianeta non li regge...

...le guerre sono UNA "soluzione", in questi casi...

...l'ALTRA soluzione non piace a nessuno...

[SM=g7600] [SM=g7600] [SM=g7600]

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04/09/2009 11:42
 
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Re: Re: Re: Re:
laplace77, 9/4/2009 11:17 AM:

aggiungici che 6-10 miliardi di persone, tutte che vogliano consumare come gli ammmmmericani o come noi europei, questo pianeta non li regge...

...le guerre sono UNA "soluzione", in questi casi...

...l'ALTRA soluzione non piace a nessuno...

[SM=g7600] [SM=g7600] [SM=g7600]

E' invece dovrebbe essere la soluzione naturale (e anche perfettamente logica) al problema.

...L'assunto principale è che le risorse naturali sono limitate e quindi non si può immaginare un sistema votato ad una crescita infinita...

Breve aforisma OT sull'infinito...

«Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana, ma riguardo l'universo ho ancora dei dubbi.» (A. Einstein)

...come dargli torto?

Marco
04/09/2009 12:04
 
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Re: Re: Re: Re: Re:
marco---, 04/09/2009 11.42:

E' invece dovrebbe essere la soluzione naturale (e anche perfettamente logica) al problema.

...L'assunto principale è che le risorse naturali sono limitate e quindi non si può immaginare un sistema votato ad una crescita infinita...

Breve aforisma OT sull'infinito...

«Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana, ma riguardo l'universo ho ancora dei dubbi.» (A. Einstein)

...come dargli torto?

Marco




quoto entrambi...

[SM=g8079] [SM=g8079] [SM=g8079]

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09/09/2009 14:16
 
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Io faccio parte dei pessimisti, non si uscirà da questa crisi senza uno STRAVOLGIMENTO. Questo può voler dire una grande guerra, oppure delle rivoluzioni popolari o anche solo economiche (ritorno al comunismo?)



26/04/2011 09:25
 
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Che cosa c'è sotto l'iceberg (Fonte: ilsole24ore.com - di Mario Platero - 26/04/2011)

Rischio Paese? Fragilità sistemica che parte dalla Grecia? Niente di tutto questo. La vera paura dei policy makers oggi è rivolta altrove, al ritorno dei derivati finanziari: il mercato globale di questi strumenti sfiora i 600mila miliardi di dollari. Un volume insostenibile e irreale: com'è possibile che questo mercato, che dovrebbe coprire e stabilizzare i costi di approvvigionamento per l'economia reale, superi di 40 volte il valore dell'intera economia Usa?
Ci sono molte spiegazioni alla formazione di questa nuova bolla che cresce sull'onda di operazioni di carry forward, che rimbalza su nuovi strumenti assicurativi che si sono evoluti dai vecchi Cds (Credit default swaps) e che ha portato proprio in questi giorni a uno scontro epocale fra imprese e banche sul fronte delle regole. La spiegazione più semplice è quella di un tradimento. Dopo la crisi e dopo aver salvato istituzioni finanziarie sistemiche, la Federal Reserve e il Governo americano, che agivano allora, giustamente, in sincronia, approvarono il concetto del denaro facile. Con tassi reali vicini allo zero, con il denaro offerto praticamente gratis, le banche avrebbero dovuto erogare il credito alle imprese per incoraggiarle a crescere e creare occupazione. Ma hanno scelto la speculazione.
Barack Obama si infuriò: ricordate le invettive dell'anno scorso contro i banchieri? La dinamica speculativa peraltro non fu vista male da alcune autorità di controllo: indebitarsi in dollari a tassi molto bassi per poi investire in altre divise o altri prodotti ad alto rischio presentava, come poi è stato, prospettive di buoni guadagni che avrebbero rafforzato nel post-crisi i bilanci deboli delle banche. Comunque sia, la nuova (o vecchia) speculazione è davanti agli occhi di tutti. Con tutti i rischi di un pericolo annunciato e con tutte le fragilità del caso: «È questione di tempo – dichiara Simon Johnson, un economista del Mit che ha lavorato al Fondo e che lancia sulle nostre pagine un campanello di allarme – non siamo davanti a un pericolo immediato, ma i semi sono stati gettati e la seconda crisi, se non si farà qualcosa, sarà più dura della prima».
Per questo i policy makers globali sono preoccupati. E discutono nel G-20, oltre ai rispettivi contesti nazionali, di nuove regole. Peccato che siano già in profondo disaccordo fra loro. La Francia di Nicolas Sarkozy, presidente di turno del G-20, preme per l'introduzione di una tassa sulle operazioni finanziarie a rischio. L'America di Obama invece, contraria a una tassa, spinge per parametri di copertura di capitale. Il problema è che persino nei circuiti più ristretti di Washington le posizioni sono divergenti. Nei giorni immediatamente precedenti alle riunioni del Fondo le cinque autorità Usa di controllo hanno annunciato regole per limitare le operazioni sui derivati imponendo contrappesi di capitale. Il dibattito si chiuderà il 24 giugno, ma l'avvio è stato infuocato. Intanto è partito un braccio di ferro che vede contrapposti da una parte banche e alta finanza in genere, dall'altra le imprese che si vedono equiparate alle banche quando si parla di derivati e si sentono improvvisamente penalizzate dalle nuove regole in discussione.
Questo litigio ci riporta alla dicotomia fra economia reale e finanza. Quando le banche o istituzioni come hedge funds speculano sul petrolio usando strumenti derivati, lo fanno per un puro interesse finanziario. Ma se le stesse operazioni sono condotte da linee aeree, compagnie petrolifere o altri grandi operatori il cui business dipende dall'energia o dalle forniture di cereali, l'utilizzo di un derivato è per la copertura di un'esigenza di business molto reale.
Le nuove regole illustrate dalle autorità di controllo aprono per la prima volta all'idea di una equiparazione fra istituzioni finanziarie e imprese per le richieste di una copertura del rischio sui derivati attraverso garanzie di capitale. Il mondo industriale si è scatenato. Si è già formato un consorzio che raccoglie le 200 più importanti aziende americane, tra cui Ford, Shell, General Electric, Boeing, decise a difendere il loro esonero da contropartite di capitale, conquistato l'anno scorso, per poter condurre operazioni di copertura sull'approvvigionamento di materie prime. Uno studio prodotto dal consorzio calcola che la richiesta di una garanzia in contanti del 3% di un'operazione media porterebbe a una perdita di 130mila posti di lavoro in America. C'è naturalmente un fondo di verità. Ma cosa succede se le aziende stesse, ad esempio la Cargill, che lo fa normalmente, in parte coprono esigenze reali e in parte speculano? Non sarebbe giusto dare alle imprese un vantaggio competitivo rispetto alle istituzioni finanziarie. E sappiamo quanto sia forte la tentazione del guadagno facile, puramente finanziario. La crisi del 2007-2009 evidentemente non è bastata, perché l'ubriacatura continua.
02/05/2011 15:51
 
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La grande crisi prepara il bis: 360mila miliardi pronti ad esplodere (Fonte: blitzquotidiano.it - di Riccardo Galli - 02/05/2011)

ROMA – “Un mercato fuori controllo da 360mila miliardi di euro. Un rischio di credito stimato in 750 miliardi di euro, pari alla somma del default di Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna”. Volumi e cifre che da dodici mesi in qua invece di ridimensionarsi sono persino in crescita. Non è l’attacco di un pezzo pre-crisi, un reperto delle cronache prima del 2008, ma è la fotografia dell’attuale situazione economica e finanziaria mondiale che traccia il Sole24Ore. Insomma è pronta, potenzialmente pronta la grande crisi bis, il bis della grande crisi: niente e nessuno è in grado di controllare i “derivati”, una massa enorme di denaro elettronico che si agita e si muove nella “stiva” della nave-pianeta e che, ad un’onda più alta delle altre, può sfondarne le paratie e mandarla a fondo. Derivati sono quegli strumenti finanziari che “derivano” il loro valore da tassi, cambi, debiti, prestiti, materie prime, metalli, azioni, indici e dai derivati stessi. Sono “assicurazioni” su scala planetaria. Assicurazioni che sono trasformate in scommesse d’azzardo, soprattutto gli “over the counter”, i fuori Borsa, “immateriale” denaro che può materialmente esplodere perchè ci sono, contano ma nessuno sa davvero quanto valgono.

Tre anni fa, mese più mese meno, con lo scoppio di quella che era definita “la bolla immobiliare americana”, iniziò la più grave crisi economica mondiale del dopoguerra. Una crisi che si propagò da un mercato all’altro rivelando la fragilità di un sistema e svelando molte delle storture che quel sistema conteneva. Da allora il peggio sembra passato, anche se molti economisti affermano ancora che la crisi non è alle spalle. Ma la crisi ha portato con sè anche del buono. Sbagliando s’impara. Si disse che i mercati andavano regolati in modo diverso e più rigido, si disse che non si poteva permettere agli speculatori e alle speculazioni di muovere cifre di denaro abnormi e si disse che i bonus milionari che i grandi manager percepivano erano una mostruosità sociale e non solo quando quei bonus venivano corrisposti anche da aziende prossime al fallimento che significava grandi, in alcuni casi enormi, perdite economiche per le famiglie e i piccoli risparmiatori. La crisi non è ancora alle spalle, e forse nemmeno il peggio è passato se è vero, come lo è, che dopo due anni l’indice Standard & Poor’s a Wall Street è a livelli superiori a quelli di prima del collasso di Lehman, i bonus bancari hanno raggiunto i livelli record pre-Lehman e il volume dei derivati si avvicina a quello pre-crisi. Due anni e una crisi, la peggiore a memoria d’uomo, sembrano non aver insegnato nulla.

Swap, derivati e simili, genitori della crisi del 2009, continuano a far la parte del leone nei mercati e sono persino in aumento, tanto che rappresentano un mercato fuori controllo da 360mila miliardi di euro.

È questo il valore nozionale degli swap secondo le ultime statistiche internazionali. Nel complesso, per i derivati fuoriborsa, strumenti negoziati fuori da piattaforme e circuiti regolamentati, si sfiorano 500mila miliardi.
L’Isda, associazione mondiale degli operatori in derivati otc, stima che il rischio di credito di questi contratti sia pari a 2.430 miliardi di euro. Se il mercato degli swap è immenso e senza controllo, i derivati rappresentano un possibile rischio anche per le grandi banche europee che non differiscono nelle pratiche dai colossi Usa. Ammontano infatti a 4mila miliardi di euro i derivati nei bilanci degli istituti del vecchio continente, un valore pari al 20% degli attivi. E già il nome desta sospetto: lo strumento derivato letteralmente “deriva” prezzo e valore da tassi d’interesse e di cambio, debiti e prestiti, materie prime e metalli preziosi, azioni, indici e persino altri derivati. Le perplessità aumentano poi quando il derivato viene scambiato over-the-counter (otc) cioè fuoriborsa, negoziato fuori da piattaforme e circuiti regolamentati. I derivati con targhetta otc, principalmente gli swap, mancano di quotazioni ufficiali e prezzi trasparenti, non sono garantiti dalla cassa di compensazione con versamento di margini giornalieri, a fronte delle perdite anche potenziali per annullare il rischio controparte. Al giugno 2010 – ultima statistica Bri – i derivati fuoriborsa avevano un valore nozionale (entità delle passività o attività sottostanti) di poco inferiore a 600.000 miliardi di dollari, di cui circa 440.000 in swap. L’Isda, l’associazione mondiale degli operatori in derivati otc, stima che dopo il netting (compensazione delle posizioni tra due controparti) il rischio di credito di questi contratti è pari a 3.600 miliardi di dollari, 2.430 miliardi di euro. Tenuto conto che il 70% dei derivati fuoriborsa tra istituzioni finanziarie è garantito da attivi collaterali, il rischio di credito di swap e affini è quantificato in 1.100 miliardi di dollari, circa 750 miliardi di euro: pari alla somma del default di Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna messi insieme. Una montagna di denaro.

Negli ultimi 12 mesi, intanto, i volumi sono tornati a salire a ritmi sostenuti. Una dimensione monstre che, proprio a causa dell’opacità e natura sfuggente dei derivati, preoccupa autorità di controllo e governi in tutto il mondo: swap e derivati otc sono visti come fonte di rischio sistemico e quindi destinatari di una “rivoluzione regolamentare”. Gli Usa, i primi a scottarsi due anni fa, ci hanno già provato: la legge Dodd-Frank approvata dal Congresso americano impone l’obbligo di spostare la contrattazione dei derivati “standard” in mercati regolamentati, con l’uso di margini adeguati. A questa norma però, non si è ancora data attuazione, perché le banche che operano su questi mercati guadagnano 19,4 miliardi di dollari l’anno in queste transazioni. Frenano perché sanno di profittare dall’opacità del mercato interbancario e non vogliono perdere questi profitti e i bonus ad essi collegati.

Due anni, ventiquattro mesi e moltissime parole sono passate. In questo breve lasso di tempo economie, quelle delle grandi nazioni come quelle delle piccole famiglie, sono state sconvolte e in alcuni casi distrutte. Centinaia di migliaia di americani si sono trovati nella condizione di non essere più in grado di onorare i loro debiti, milioni di persone in tutto il mondo hanno perso il lavoro e i ministri dell’economia delle nazioni più industrializzate in particolare hanno dovuto varare manovre economiche molto pesanti. La crisi in questi due anni ha riempito giornali e telegiornali, conversazioni al bar e dibattiti televisivi, aule parlamentari e direzioni di banche ma, nonostante tutto questo parlare e tutto questo spazio oggi, due anni dopo, pochi numeri rischiano di vanificare tutte quelle parole.
[Modificato da marco--- 02/05/2011 15:53]
16/06/2011 10:35
 
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La crisi immobiliare ora e' peggio della Grande Depressione (Fonte: wallstreetitalia.com - 16/06/2011)
[Modificato da marco--- 16/06/2011 10:58]
10/10/2011 22:16
 
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Crisi come la Grande Depressione? Addirittura peggio (Fonte: america24.com - di Domenico Zappia - 10/10/2011)

La crisi finanziaria come la Grande Depressione? Per David Leonhardt non è così. Purtroppo per noi, il capo della redazione di Washington del New York Times sostiene che la recessione degli anni Trenta conteneva in sé le premesse per il boom economico successivo; mentre l’attuale crisi non presenta alcuna base su cui costruire il futuro economico degli Stati Uniti.

Nonostante la miseria post Grande Depressione, scrive Leonhardt, negli anni Trenta l’economia americana ha fatto degli enormi passi in avanti: sono stati inventati la televisione e il nylon, furono commercializzati i frigoriferi e le lavastoviglie, le ferrovie divennero più veloci e le strade furono migliorate. Come sostiene lo storico Alexander Field, gli anni Trenta “sono stati il decennio con più progressi tecnologici del decennio.

Spesso gli economisti differenziano tra fluttuazioni di breve termine e cambiamenti strutturali. Nessun decennio è più contraddittorio (in questo senso) degli anni Trenta: al contempo, caratterizzato da una delle peggiori fluttuazioni del ventesimo secolo e responsabile per alcuni dei cambiamenti strutturali più importanti di sempre.

Alla luce dei problemi odierni, sarebbe confortevole trovare risposte nella storia ma se c’è da imparare qualcosa dagli anni Trenta è che, come allora, l’attuale congiuntura economica è caratterizzata da un insieme di problemi di breve (la crisi finanziaria) e di lungo termine (il rallentamento nella creazione di nuovi settori industriali, la stagnazione nel campo dell’istruzione e la rapida crescita di settori ambivalenti, come quello finanziario e sanitario). Ci si può dunque chiedere se gli Stati Uniti non siano entrati in una fase di crescita economica negativa, in cui l’alto tasso di disoccupazione sarà un problema strutturale.

Venerdì, il dipartimento del Lavoro ha riferito che la creazione di nuovi posti di lavoro a settembre è stat modesta e che il tasso di disoccupazione è rimasto stabile al 9,1%. Un recente sondaggio condotto dalla sede regionale di Filadelfia della Federal Reserve, prevede che questo non scenderà al di sotto del 7% prima del 2015 –e che dopo, solo raramente sarà inferiore al 6 per cento.

Non troppo tempo fa, un tasso di disoccupazione del 6% sarebbe stato considerato disastroso, nota Leonhardt. Tra il 1995 e il 2007, il tasso ha superato il 6% per un totale di cinque mesi nel 2003 e non ha mai neppure sfiorato il 7%. Per il Times, la crisi finanziaria si è dunque aggiunta a quella strutturale e le due ora traggono linfa l’una dall’altra.

Gli Stati Uniti sono in un periodo molto simile a quello attraversato dall’Europa negli ultimi vent’anni; sono ricchi ma in difficoltà. L’alta disoccupazione alimenterà le paure di un declino. L’arena politica diventerà – come lo è già – tumultuosa. E molti rimarranno senza lavoro.

Circa 6,5 milioni di persone sono senza lavoro da almeno sei mesi, scrive il quotidiano. Dal 2008, diversi altri milioni di persone hanno abbandonato la speranza di trovare un nuovo posto di lavoro. Il dato core sulla disoccupazione sottolinea il nesso tra crisi economica di lungo e di breve termine: molti hanno perso il loro lavoro per la crisi, tanti rimarranno senza lavoro anche dopo che l’economia avrà ricominciato a crescere. Anzi – nota Leonhardt - diverranno un peso per la ripresa.

Per adesso, la causa principale della depressione economica rimane la crisi finanziaria. Anche se i dettagli differiscono da ciclo a ciclo, il risultato delle fluttuazioni è, in genere, lo stesso: (stando a uno spesso citato studio di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff) un decennio caratterizzato da un alto tasso di disoccupazione. E siccome Reinhart e Rogoff fissano al 2007 la data d’inizio della crisi, questo vuol dire che sono trascorsi solo 4 anni dall’inizio della crisi.

Ovviamente, fare previsioni catastrofiche sull’andamento dell’economia americana è un azzardo, scrive il capo della redazione di Washington del New York Times. Negli ultimi 50 anni, i disfattisti hanno affermato che l’America stava perdendo terreno nei confronti di Unione sovietica, Giappone e Germania; solo per essere successivamente smentiti.

Gli Stati Uniti continuano a godere di alcuni vantaggi che nessuna nazione, inclusa la Cina, può vantare: il miglior network di venture-capital, uno stato di diritto stabile, una cultura che celebra l’assunzione di rischi e un’attrattiva senza pari per emigranti. Questi punti di forza sono spesso la forza dietro la nascita del prossimo settore industriale di punta -anche nei momenti di difficoltà. È quanto accaduto negli anni Trenta; è quanto si è ripetuto negli anni Novanta con internet.

Ciononostante, nota Leonhardt, i motivi di preoccupazione oggi sono numerosi. Anche prima dell’inizio della crisi finanziaria, l’economia americana non stava attraversando un momento particolarmente felice. La creazione di nuovi posti lavoro non riusciva a tenere il ritmo dell’espansione demografica, e la quota di adulti regolarmente impiegati calò. Mentre per coloro con lavoro, la crescita dei salari stentava a tenere il passo dell’inflazione.

Per cercare di dare una spiegazione unitaria a ciò che sta accadendo, secondo il Times, non resta che guardare a quanto successo negli anni Trenta. Allora gli Stati Uniti stavano aumentando la loro capacità produttiva, in parte grazie all’eliminazione di alcune inefficienze ma perlopiù grazie all’introduzione di nuove tecnologie. Quei cambiamenti, uniti all’industrializzazione legata allo sforzo bellico relativo al secondo conflitto mondiale, erano le premesse per il boom del Secondo dopoguerra. Oggi invece l’economia non ha fatto molto per migliorare la sua capacità produttiva, nota il Times. Ha ridotto le inefficienze e migliorato la produttività ma non ha portato allo sviluppo di alcun nuovo settore industriale dove possano trovare impiego il gran numero di lavoratori in eccesso. Per Leonhardt, non c’è alcuna versione contemporanea del boom delle ferrovie del 1870; non c’è una nuova industria paragonabile a quella automobilistica degli anni Venti; e nemmeno una nuova internet.

Una spiegazione può essere trovata nelle competenze dei lavoratori americani. Secondo il quotidiano, gli Stati Uniti sono l’unico paese industrializzato che negli ultimi trent’anni non ha aumentato il numero di lavoratori laureati. E, a peggiorar la situazione, Washington ha deciso di non accogliere buona parte dei ricercatori e degli imprenditori desiderosi di stabilirsi negli Stati Uniti.

Il rapporto tra competenze e successo economico nazionale non è un indicatore esatto, nota Leonhardt. Ma Australia, Nuova Zelanda, Canada e buona parte dell’Europa settentrionale hanno fatto dei grandi passi in avanti a livello di formazione dagli anni Ottanta e i loro tassi di disoccupazione – una volta superiori a quello americano – sono adesso inferiori.

Oltre all’istruzione, l’economia americana sembra soffrire anche di un’allocazione di risorse approssimativo –in parte non controllabile da Washington (il riferimento è alla svalutazione dello yuan da parte della Cina). Ma perlopiù attribuibile a tre settori in larga parte improduttivi come quelli finanziario, sanitario e immobiliare.

Il sistema di assistenza sanitaria americano è cresciuto a dismisura e gli Stati Uniti adesso spendono per ogni individuo il 50% in più di qualsiasi altra nazione, ma i risultati sono deludenti. Il contrasto sembra dunque suggerire l’esistenza di sacche di inefficienza. Nel frattempo nel settore finanziario il volume degli scambi è aumentato a dismisura senza però aver migliorato gli standard di vita.

Leonhardt dunque si chiede se le risorse impiegate in questi settori non possono trovare un’ottimizzazione in qualche altro settore. Finanza, sanità e settore immobiliare contribuiscono alla creazione di posti lavoro nel breve termine ma non assicurano nulla nel lungo. In questo, differiscono da quei settori che nei boom del passato hanno fatto da traino per l’intera economia. Si unisce al coro l’economista di Harvard Lawrence Katz, “il problema del settore sanitario è simile a quello del finanziario: gente di talento spreca tempo in attività improduttive”.

Gli Stati Uniti ha sempre rimpiazzato le industrie meno dinamiche con altre più produttive. La sostituzione della carrozza con la macchina non ha comportato problemi. Oggi invece – nota il Times - l’avvicendamento crea diversi problemi macroeconomici; ma questi sarebbero anche tollerabili. Il vero problema è che all’orizzonte non si vedono nuovi settori industriali che possano servire da traino per l’intera economia. Per Katz, “il problema non sono i licenziamenti quanto la mancanza di assunzioni”.

Se la storia dovesse ripetersi, la situazione dovrebbe prontamente migliorare, sostiene Leonhardt. Ma per adesso le prove per un tale ottimismo sono poche e l’economia è lontana milioni di posto di lavoro da poter esser considerata sana.
05/02/2012 14:08
 
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05/02/2012 14:35
 
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Baltic Dry Index in profondo rosso

Giovedì 02 Febbraio 2012 16:38



L'indice che rileva i noli dei trasporti marittimi di merci sfuse precipita a quota 662 punti, il valore più basso degli ultimi 25 anni, che non era stato raggiunto neppure durante la crisi macroeconomica del 2008-2009. Segnale del rallentamento dell'economia globale, ma anche dell'eccesso di stiva.


Non calano solamente i noli container, ma anche quelli dei cargo dry e bulk, rilevati dall'indice Baltic Dry Index, basato sulle cinquanta principali rotte mondiali. La rilevazione del 1° febbraio 2012 segna 662 punti, battendo perfino il risultato peggiore dell'ultimo quarto di secolo, registrato il 5 dicembre 2008 (quando raggiunse 663 punti). Dall'inizio del 2012, l'indice è calato di ben il 39%, mentre nell'ultimo anno è più che dimezzato (-62%). Come termine di confronto, basti considerare che nel maggio del 2008 il Baltic Dry Index aveva toccato la vetta di 11.793 punti, mostrando un incremento del 128% rispetto al gennaio precedente.
Gli esperti hanno individuato tre cause di questo inabissamento. La prima è stagionale ed è connessa alla festa di Primavera in Asia, che ha ridotto la domanda di trasporto in una regione divenuta sempre più importante nel traffico di materie prime e di semilavorati. Ma questo non basta a spiegare un calo di così lunga durata, alla cui base sta la concomitanza tra rallentamento dell'economia globale e aumento dell'offerta di stiva, che potrebbe proseguire anche nel 2012. Infatti, secondo una rilevazione della Clarkson, la flotta globale crescerà quest'anno del 14%, a fronte di un aumento dei traffici del 3%.

© TrasportoEuropa - Riproduzione riservata
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05/02/2012 15:02
 
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Re:
(sylvestro), 2/5/2012 2:08 PM:


Tanto interessante, tanto reali i rischi prospettati in questo breve video.
[Modificato da marco--- 05/02/2012 15:03]
09/06/2013 09:45
 
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I numeri a confronto
Cgia di Mestre: la crisi attuale è peggio di quella del ’29 (Fonte: lindipendenza.com - 14/04/2013)

Gli effetti negativi della crisi economica che stiamo vivendo in questi ultimi anni sono piu’ pesanti di quelli registrati negli anni Trenta. A dirlo e’ la Cgia di Mestre che ha messo a confronto l’andamento di alcuni indicatori economici censiti nei periodi 1929-1934 e 2007-2012. Ecco i risultati: Pil – a livello aggregato la ricchezza prodotta dal Paese al netto dell’inflazione durante la crisi degli anni Trenta e’ diminuita del 5,1%. Tra il 2007 e il 2012 la contrazione e’ stata del 6,9%. Pil pro capite: la ricchezza prodotta per singolo abitante al netto dell’inflazione, invece, e’ scesa durante la Grande crisi dell’8,6%, in questi ultimi anni del 9,4%. Investimenti: se tra il 1929 e il 1934 la contrazione fu del 12,8%, tra il 2007 ed il 2012 il calo e’ stato del 27,6%, piu’ del doppio rispetto a quanto accaduto 80 anni fa. Consumi delle famiglie: negli anni Trenta la caduta fu drammatica -9,4%. In questi ultimi anni la diminuzione e’ stata del 5%. “La gravita’ della situazione- commenta Giuseppe Bortolussi segretario della Cgia di Mestre- richiede la formazione di un Governo forte ed autorevole che in tempi brevi inverta la politica economico/fiscale praticata in questo ultimo anno e mezzo”.

“Basta con l’austerita’ ed il rigore che stanno provocando un preoccupante aumento della disoccupazione - aggiunge Bortolussi- bisogna, invece, ridurre le tasse e rilanciare i consumi delle famiglie, altrimenti per la gran parte delle piccole imprese non c’e’ futuro. Visto che in Europa nel decennio scorso il 58% dei nuovi posti di lavoro sono stati creati dalle piccole imprese con meno di 10 addetti, se non aiutiamo queste ultime non possiamo sperare di combattere efficacemente la disoccupazione”. E’ chiaro, sottolinea la Cgia, che questa comparazione presenta dei limiti riconducibili all’incompletezza delle statistiche riferite agli anni Trenta. Pertanto, i risultati vanno presi con le molle, anche se ci consentono di realizzare una comparazione che ci ribadisce la gravita’ della situazione che stiamo vivendo. Va altresi’ ricordato che in questa analisi sono stati presi in esame gli unici indicatori che potevano essere confrontati. Nonostante i numeri mettano in evidenza le difficolta’ di questi ultimi tempi, non va dimenticato che negli anni Trenta la durata media della vita, la mortalita’ infantile, il livello di istruzione, le condizioni abitative, quelle igienico/sanitarie e la ricchezza media delle famiglie non erano minimamente paragonabili a quelle attuali. Da un punto di vista metodologico la Cgia segnala che nel 1929 e nel 2007 si sono registrati i risultati economici maggiormente positivi per il nostro Paese nei due periodi messi a confronto. Pertanto, le due variazioni hanno inizio proprio a partire dal ’29 e dal 2007.
[Modificato da marco--- 09/06/2013 09:48]
09/06/2013 09:45
 
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FINALMENTE si ammette la realtà. Questa crisi è peggiore del 1929 (Fonte: intermarketandmore.finanza.com - 08/06/2013)

...E quanto ieri ha detto Saccomanni, il ministro dell’economia del Governo Letta.

(AGI) – Firenze, 7 giu - La crisi di oggi e’ “piu’ difficile e complessa da gestire” rispetto a quella del ’29. “Purtroppo in realta’ questa crisi e’ molto diversa rispetto agli anni ’30. Ha caratteristiche strutturali che hanno cambiato molti dei paradigmi correnti nei paesi industrializzati e si sta rivelando piu’ difficile e complessa da gestire” (...) Lo ha sottolineato il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, nel corso del suo intervento a Firenze a ‘La Repubblica delle idee’. “Nonostante ci siano state iniezioni di liquidita’ da parte delle banche centrali, questa crisi non vuole andare via. In realta’ finira’. (...)
Certo, non può dire diversamente altrimenti tutti si suiciderebbero. Una fonte istituzionale deve sempre lasciare aperta la porta e fare entrare un raggio di luce e di speranza. Ma anche Saccomanni è perfettamente cosciente della gravità del momento.
Intanto però, se volete buttare un occhio alla nostra chiave di lettura della crisi e se soprattutto la vorrete condividere coi vostri contatti, ecco gli ultimi importanti post sull’argomento. Da leggere e da condividere tramite email, facebook, twitter e quant’altro. Perché la gente deve sapere come stanno le cose...
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