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Bubble Bar

Ultimo Aggiornamento: 21/03/2017 09:34
29/12/2014 10:18
 
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Riforma delle norme sul licenziamento in Italia, non è scandaloso. Però andrebbe detto, a chiare lettere.
Licenziare facile e a buon mercato: Renzi, non potevi dirlo subito? (Fonte: glistatigenerali.com - 29/12/2014)

Al governo guidato da Matteo Renzi è definitivamente ascrivibile un nuovo fatto: una riforma radicale delle norme sul licenziamento in Italia. La denominazione ufficiale parla di “contratto a tutele crescenti” ma il cono di luce che il decreto getta sulla realtà del lavoro in Italia è rovesciato: il protagonista dell’impianto del decreto non è il lavoro né il lavoratore da “tutelare”, ma l’impresa e l’imprenditore da liberare da vincoli sul licenziamento. Non è scandaloso. Però andrebbe detto, a chiare lettere.

Come siamo arrivati fin qui? In principio, come sempre, c’è lo storytelling sul Jobs Act e la “narrazione positiva” e ottimistica delle riforme del lavoro. Questa storia comincia improvvisamente l’estate scorsa. Quando il presidente del Consiglio Renzi liquida come “discussione inutile” la proposta del ministro Angelo Alfano, lanciata a mezzo intervista, di abolire l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, e la previsione di reintegro in caso di licenziamento illegittimo. Ci è stato raccontato che il “contratto a tutele crescenti” avrebbe portato a una convergenza graduale nel tempo verso le tutele diciamo così storiche (e in particolare quella delle reintegro). Il plot lo ha messo giù Alfano in quell’intervista a Repubblica a metà agosto, ma Renzi si è incaricato di narrarlo nel modo che gli riesce bene. Prendendosi il centro della scena, intestandosi la battaglia che era stata lanciata da Alfano, e utilizzandola, ancora una volta, per marcare la propria differenza dalla “vecchia sinistra” a cominciare dai sindacati e dalla Cgil di Susanna Camusso. Marketing politico di indubbia presa.

Veniamo dunque al provvedimento concreto, che sebbene non ancora definitivo – mancano l’acquisizione dei pareri peraltro non vincolanti delle commissioni parlamentari competenti e l’emanazione del decreto – è stato approvato dal Consiglio dei ministri del 24 dicembre (vedi il testo). Più che contratto a tutele crescenti, questo primo stralcio di Jobs Act è un disciplina del licenziamento a esito e costo definiti. Applicabile a tutti i nuovi contratti e alle piccole imprese che dovessero superare il limite dei 15 dipendenti dopo l’entrata in vigore della legge.

Al netto di tutti i casi residuali come le discriminazioni o i licenziamenti disciplinari, il succo per la generalità dei nuovi assunti nonché per tutti i dipendenti delle imprese che da qui in avanti supereranno la soglia dei 15 dipendenti è il seguente: si può licenziare liberamente, con semplice preavviso, adducendo il “giustificato motivo oggettivo”. Ovvero «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa»: tutto quel novero di motivi “economico-produttivi” non imputabili al comportamento del lavoratore, insomma. Se poi il lavoratore fa ricorso e il giudice accerta che non vi sono gli estremi del licenziamento, il datore di lavoro viene condannato a pagare un’indennità pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione per ciascun anno di anzianità, per un minimo di quattro e un massimo di 24 mensilità, ma sgravato dalla contribuzione previdenziale. Chi lavora da 30 anni in azienda riceve dunque le stesse 24 mensilità di chi ci lavora da 12 anni.

Stesso trattamento in caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo (inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del datore di lavoro) o per giusta causa, ovvero un inadempimento del lavoratore talmente grave da non consentire neanche in via provvisoria la prosecuzione del rapporto. Il reintegro spetta solo se viene dimostrato che il fatto contestato al lavoratore è inesistente, senza alcun riguardo alla proporzionalità tra fatto e la sanzione del licenziamento, come esplicita chiaramente la legge. Per essere brutali e chiari: chi tre volte la settimana si appropria indebitamente del caffè aziendale allo spaccio senza pagarlo, o chi qualche volta fa il furbo ed esce dieci minuti prima chiedendo al collega di timbrare per lui, una volta licenziato per queste ragioni non potrà contare sulla sproporzione tra le proprie violazioni e la misura del licenziamento al fine di ottenere il reintegro. Una conferma in più dell’impianto di fondo della riforma renziana, che non ha nelle “tutele crescenti” il proprio cuore, ma semmai nella sanzione definitiva della piena libertà di licenziare, a costi fissi e oggettivamente limitati. Perché la via d’uscita per il datore è in fondo prevista dalla legge: basta qualificare ogni licenziamento con i giustificati motivi oggettivi per poi essere sostanzialmente certo che, alla peggio, dovrà pagare due mensilità l’anno per ogni anno di anzianità dopo un processo, con tutte le incognite temporali del caso e i relativi costi iniziali a carico del lavoratore ricorrente. Che, se ben consigliato, sarà sempre propenso ad accettare un’offerta di conciliazione al ribasso rispetto al massimo possibile.

Ora che le bocce si vanno fermando, e che il quadro è più chiaro, sembra sensato puntare il dito su alcuni limiti che ci paiono evidenti nell’impianto in questione. Una cosa la diciamo subito: non troviamo aberrante l’impianto di fondo della riforma, e non ci sembra sbagliato l’obiettivo di dare una chiara e codificata libertà di licenziamento agli imprenditori. I punti di critica, non sono di per sé ideologici. Sono, semmai, piuttosto di metodo, e di come funziona e funzionerà questa riforma.

Il primo, il più macroscopico, è nell’esiguità della “sanzione” monetaria per i risarcimenti che sostituiscono il reintegro nei casi di licenziamenti nei quali “non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa”. Si tratta di licenziamenti avvenuti sostanzialmente in violazione del patto contrattuale, e dove prima c’era lo spauracchio dell’obbligo di reintegra sancito da un giudice oggi c’è una compensazione economica. Compensazione economica che pare davvero troppo esigua, soprattutto qualora ci si trovi di fronte a lavoratori in età non più giovane, con un’anzianità di servizio di vent’anni o più e una professionalità non più spendibile: il prezzo insomma non è giusto. In questo quadro, va sottolineato che, dopo una lunga e un po’ farsesca sulla possibilità di introdurre la possibilità di un licenziamento arbitrario facendolo pagare caro e salato, con tanto di minacce di di Sacconi e di finte doglianze di Alfano, il licenziamento arbitrario esiste, da oggi, solo che costa relativamente poco.

Ancora, in questo quadro, colpisce il pari trattamento tra il licenziamento per giusta causa e giustificato motivo soggettivo, da un lato, e il licenziamento per giustificato motivo oggettivo dall’altro. Nel primo caso parliamo di lavoratori che hanno mancato ai propri doveri. Nel secondo parliamo di lavoratori che subiscono una crisi economica o una ristrutturazione aziendale, magari resasi necessaria per le scelte errate dell’imprenditore. E però per la legge pari sono: agli uni e gli altri, ai colpevoli e alle vittime, la legge garantisce lo stesso trattamento. Fuori dall’azienda senza un euro.

C’è poi l’annosa questione del pubblico impiego. Anche qui, la situazione si mostra fragile sia nel metodo sia nel merito. Da un lato, fa impressione che uno dei principali estensori della riforma in questione, Pietro Ichino, si affidi alle norme generali sul pubbligo impiego, per dire che la nuova disciplina si applica anche ai nuovi assunti della pubblica amministrazione, e viene prontamente (e molto debolmente, invero) contraddetto dalla ministra alla Pubblica amministrazione Marianna Madia, che ha buttato lì un paio di mezze frasi per liquidare la questione. («I pubblici dipendenti sono assunti per concorso, quindi il regime non è applicabile anche a loro»). «Trovo francamente sconcertante questo affannarsi di alcuni ministri nel negare l’applicabilità del Jobs Act al pubblico impiego», ha osservato il sottosegretario all’Economia e deputato di Scelta Civica Enrico Zanetti. A noi sembra penoso che gente che era allo stesso tavolo non abbia una posizione univoca su quello ciò che appena votato. A meno che l’ambiguità sia voluta.

Sebbene prevista in via generale dal Testo unico del pubblico impiego, l’applicabilità delle norme private ai rapporti di lavoro nella P.A. è da sempre al centro di un serrato dibattito, in un contesto in cui la Corte costituzionale e Cassazione sono restìe all’equiparazione tout court fra impiego pubblico e privato. Decidere di non affrontare la questione apertamente, assumendosene la responsabilità politica, e rinviare la questione agli esiti giudiziaria, non è un bel cambiamento di verso. Ma anche decidere di riformare e tagliare (per questo era stato chiamato Cottarelli, ma chi se lo ricorda più?) è difficile soprattutto se, come Renzi, si è in campagna elettorale permanente. E così, si decide di non decidere e si lascia la risposta sospesa: oggi è oggetto di dibattito politico, domani ci penseranno gli avvocati, se mai qualche dirigente pubblico deciderà di “ristrutturare” e licenziare i dipartimenti a lui affidati.

Ma cosa c’entrano gli avvocati? Non avevamo detto che con questa riforma i punti di incertezza sono tutti risolti e dai giudici si andrà pochissime volte? Eh, sarebbe bello credere almeno questo. Ma così non pare. Più di un giurista da noi interpellato è sembrato in realtà piuttosto scettico sulla possibilità che si chiuda per sempre la stagione giudiziaria delle controversie sul lavoro. Piuttosto, margini di incertezza interpretativa e non-detti vari, sembrano invece schiudere la possibilità di nuove code giudiziarie, soprattutto dove i lavoratori non si rassegnino a una manciata di mensilità o gli imprenditori non vogliano scendere a patti subito nemmeno per quelle poche mensilità.

Naturalmente, solo il futuro dirà dell’impatto vero della riforma sull’economia e la società italiana. Sicuramente, andrà capito come interagiranno le nuove norme con le nuove misure di sostegno alla disoccupazione, inclusa la parziale estensione ad alcune forme di lavoro atipoco, e come funzionerà la promessa decontribuzione a favore di chi assuma a tempo indeterminato. Con certezza si può dire che non si sentiva il bisogno di quest’ennesimo dualismo fra chi continuerà a godere delle vecchie tutele e i nuovi assunti: una distorsione che aumentà l’iniquità a un sistema già per se iniquo.

A monte di tutto, resta una valutazione politica nei confronti dell’esecutivo, e non è generosa. Dopo una lunga tarantella, dopo un gioco delle parti, la montagna del governo ha partorito una modifica chiara, netta e che ha un cuore: la libertà di licenziare a basso costo. A parte il costo davvero troppo basso, e la bassa qualità della tecnica legislativa, la cosa non ci scandalizza. Ma avremmo preferito, finalmente, che si parlasse chiaro dall’inizio, si dicesse che questa era la meta, e si trattasse con le controparti in maniera chiara. Così non è stato: tra un tweet di Sacconi, un avanti-e-indietro del ministro Poletti e una sfuriata della Camusso, siamo arrivati a questo punto perdendo, come sempre, i contorni di merito delle questioni. Noi abbiamo qui provato a ricostruirli, e continueremo a farlo. In attesa che il verso cambi.
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