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Da noi e' diverso

Ultimo Aggiornamento: 24/06/2012 20:01
11/03/2011 20:31
 
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Italiani ricchi, ma fino a quando?

di Paolo Forcellini

Gli italiani si stanno rapidamente impoverendo? Alcuni dati sulla ricchezza delle famiglie, pubblicati nei giorni scorsi sul “Bollettino” della Banca d’Italia relativo a gennaio, hanno destato commenti preoccupati. L’indebitamento delle famiglie risulta in crescita (più 5 per cento) e anche mediamente più costoso (prima ancora che la Bce abbia posto mano all’aumendo dei tassi d’interesse), mentre sono in flessione (meno 1,7 per cento, all’incirca il medesimo calo della raccolta obbligazionaria) i depositi sui conti correnti del settore privato.

Le associazioni dei consumatori hanno puntato l’indice accusatorio sul sistema bancario che starebbe facendo pagare ai clienti la politica di “finanziamenti spregiudicati” e i maggiori costi dovuti all’inefficienza delle aziende di credito. Ciò può valere per l’aumento dei tassi sui mutui e per i minori interessi riconosciuti sui conti correnti, ma per gli altri fenomeni si tratta evidentemente di un calo del risparmio accompagnato da consumi sostanzialmente stabili. Per questo le forze d’opposizione hanno commentato le notizie Bankitalia sostenendo che “confermano l’accelerazione della contrazione del risparmio netto delle famiglie italiane, conseguenza dell’elevata disoccupazione, dell’assenza di indennità di disoccupazione, dei tagli ai servizi pubblici, degli aumenti delle tariffe, degli effetti dell’inflazione sul potere d’acquisto” (Stefano Fassina, responsabile economico del Pd).

I due tipi di critiche, quella consumeristica e quella politica, contengono indubbiamente un pizzico di verità. Ma una valutazione dell’effettivo stato di benessere delle famiglie italiane, in atto e in prospettiva, esige che si tenga conto di un quadro ben più ampio di quello che possono offrire le piccole variazioni congiunturali di alcuni indicatori. Un primo dato di fatto ineludibile è la ricchezza netta delle famiglie che alla fine del 2009, ultimo dato disponibile, ammontava a 8.600 miliardi di euro, pari a circa 350 mila euro per nucleo. Sotto questo aspetto, nel confronto con gli altri maggiori paesi industrializzati, la posizione italiana è invidiabile. In rapporto al suo reddito disponibile la famiglia italiana media aveva nel 2008 (purtroppo i confronti internazionali sono possibili solo con qualche ritardo) una ricchezza netta 7,84 volte superiore. In altre parole il patrimonio era pari a quasi otto anni di reddito. In Gran Bretagna quel rapporto era pari a 7,68, in Francia a 7,52, in Giappone a 6,97, in Germania a 6,29 (dato 2007), negli Stati Uniti addirittura a 4,76.

Un altro dato conferma e precisa meglio la pole position nostrana (ma poi vedremo che vi sono anche sintomi negativi): tra il 2007 e oggi, cioè al termine di tre anni di profonda crisi, il patrimonio delle famiglie Usa è diminuito di 11 mila miliardi di dollari, cifra corrispondente all’incirca al loro reddito di un anno. Perdite meno rilevanti ma non irrilevanti le hanno subite anche francesi e britannici nel medesimo periodo: ripettivamente 352 e 270 milioni di euro. E le famiglie italiane? Sempre tra il 2007 e il 2010 hanno guadagnato, sia pur poco, in ricchezza: 88 milioni di euro.

Sembra il mondo alla rovescia, dove i ricchi per definizione cedono il passo agli straccioni anch’essi per definizione. Ma non è tutto oro quel che luccica. Innanzitutto perché se si va a guardare la composizione della ricchezza delle nostre famiglie si nota che è sostanzialmente diversa da quella degli altri maggiori paesi: solo in Francia la parte del patrimonio costituita da attività “reali” (leggi: immobiliari) supera di poco quella italiana (5,66 volte il reddito disponibile annuo contro 5,41), mentre per gli altri paesi considerati è largamente inferiore, fino ad arrivare al 2,21 degli Stati Uniti. Ora è noto che una delle caratteristiche principali della crisi di questi anni è stato lo scoppio della “bolla” immobiliare: in Italia, invece, vi è stata tutt’al più una limatura dei prezzi, i valori nominali sono rimasti fermi o leggermente in calo e la bassa inflazione ha moderatamente eroso quelli reali. Ma niente di paragonabile a quanto successo negli States.

Delle due l’una: o in Italia la bolla immobiliare non c’è mai stata, e quindi non poteva scoppiare, oppure l’esplosione o lo sgonfiamento progressivo ma sostanzioso debbono ancora arrivare. Se fosse buona la seconda ipotesi, allora il primato nella ricchezza delle famiglie italiane sarebbe assai effimero, destinato a venir meno in breve tempo. Ma per stabilirlo occorrerebbe un’analisi approfondita di qualità e quantità del patrimonio immobiliare e un confronto fra i diversi paesi che al momento adottano criteri di valutazione disomogenei. Lasciamo quindi aperto l’interrogativo, per la verità piuttosto inquietante
.

C’è un altro fattore che potrebbe aver contribuito a innalzare l’Italia sul podio della ricchezza delle famiglie. Trattasi dell’elevato tasso di lavoro nero che, come noto, dilaga nella penisola, stimato in modo assai variabile fra il 15 e il 30 per cento del prodotto lordo. Se il fenomeno, tanto più aleatorio da quantificare per via della materia trattata, superasse le prudenti valutazioni Istat, ne risulterebbe che il reddito ufficialmente disponibile delle famiglie sarebbe inferiore a quello effettivo e quindi il rapporto tra il patrimonio e il reddito disponibile risultante dalle statistiche ufficiali sarebbe superiore a quello effettivo. Il lavoro nero contribuirebbe a spiegare anche la particolare capacità degli italiani nel risparmiare e nell’accumulare ricchezza familiare, malgrado i loro “bassi” redditi medi dichiarati.

Bolla o non bolla, le prospettive per la ricchezza delle famiglie italiane, comparata con quella degli altri paesi, non sono rosee: non tanto per i piccoli segnali ricordati all’inizio, quanto per un’importante tendenza di fondo che si sta manifestando ormai da quasi un paio di decenni, la riduzione del risparmio. Fino alla fine degli anni Ottanta dell’Italia si poteva dire, modificando leggermente quanto scolpito sul Colosseo quadrato dell’Eur, che era un paese popolato da santi, poeti, navigatori e… risparmiatori. Ancora nel 1990 le famiglie mettevano da parte quasi il 22 per cento del loro reddito. Da allora sta avvenendo una metamorfosi di massa: le formiche si stanno trasformando in cicale. Oggi il tasso di risparmio è al 6,8 per cento, meno di un terzo di vent’anni fa. Complice la crisi, senz’altro, e il desiderio di non contrarre troppo i consumi, ma in altri paesi – come si vedrà – non è andata allo stesso modo.

Se è vero che il legame tra risparmio e ricchezza non è strettissimo e immediato, poiché sul breve-medio periodo la ricchezza è influenzata soprattutto dall’andamento dei valori delle sue componenti, e quindi in particolare dalle variazioni dei mercati dei titoli, dei metalli preziosi, dei beni artistici e degli immobili, è altrettanto vero che sul medio-lungo periodo un basso tasso di risparmio non può non influenzare negativamente il livello del patrimonio detenuto. Per evitare un tale esito infausto occorre innanzitutto che si realizzi una ripresa della crescita del Pil ai livelli di qualche anno fa. Se poi consideriamo la classifica internazionale della ricchezza familiare, il rischio di perdere posizioni è aumentato dal combinato disposto del nostro trend calante di risparmio e di quello crescente di altri paesi, in primis gli Stati Uniti, un popolo di assolute cicale fino a poco tempo fa ma che negli ultimi tempi ha compiuto un’inversione di marcia (dallo zero per cento del reddito disponibile nel 2007, il risparmio ha raggiunto il 6,3 nel 2010).

Inevitabile, prima di concludere l’escursione nella ricchezza degli italiani, evocare i polli di Trilussa (“secondo le statistiche d’adesso/risurta che te tocca un pollo all’anno:/e, se nun entra ne le spese tue,/t’entra ne la statistica lo stesso/perché c’è un antro che ne magna due”): anche il patrimonio si distribuisce in modo del tutto sperequato tra le famiglie come i pennuti del poeta romanesco? La crisi ha indubbiamente contribuito ad accelerare un processo di concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi. Secondo Bankitalia, nel 2009 il decile superiore delle famiglie (il dieci per cento più benestante) possedeva il 45 per cento della ricchezza, mentre ai cinque decili inferiori (il 50 per cento delle famiglie con meno mezzi) ne possedevano solo il 10 per cento.

Quello di una nuova ondata di concentrazione dei patrimoni è da almeno un paio di decenni un fenomeno mondiale, causato anche dallo sviluppo delle nuove tecnologie e dalla globalizzazione. In questo quadro, però, il caso italiano è un po’ anomalo. Innanzitutto perché durante gli ultimi tre anni di crisi la concentrazione (che si misura con un apposito indice statistico, quello di Gini) da noi risulta immutata (0,613). Inoltre e soprattutto perché il peso preponderante dell’immobiliare sulla ricchezza complessiva, in un paese dove quasi l’80 per cento delle famiglie possiede una casa in proprietà, fa sì che le sperequazioni siano in qualche misura attenuate e inferiori a quelle registrabili in nazioni dove prevale la ricchezza costituita da attività finanziarie (il già citato indice di Gini ci conferma che Italia e Francia hanno una distribuzione del patrimonio meno concentrata che Stati Uniti, Germania e Gran Bretagna).

Morale della “favola”: non fasciamoci la testa solo perché i depositi bancari sono leggermente diminuiti e crescono un po’ i debiti (fra l’altro le famiglie italiane hanno le più basse passività finanziarie), cioè prima di essercela rotta; cerchiamo però di procurarci un casco che ci protegga dai veri pericoli incombenti: la caduta del risparmio e il crollo dei valori immobiliari. Un casco che non potrà chiamarsi altrimenti che “crescita”.

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