2008 - facciamo il punto

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laplace77
00mercoledì 9 gennaio 2008 17:08
partendo da questo spunto...
...non me ne vogliate se la fonte e' LEFT...
...mi pare cmq una buona analisi e uno spunto per la discussione:

www.avvenimentionline.it/content/view/1812/


Atterraggio morbido. O con schianto

L’anno prossimo rallenteremo tutti. Il rischio di un fragoroso botto, a partire dagli Usa, non lo esclude nessuno ma è più probabile che, anche questa volta, il capitalismo si riorganizzi

di Luca Bonaccorsi

Se una delle maggiori banche d’affari del mondo dice che lo scenario previsto per l’anno prossimo «ha il 55 per cento delle probabilità di realizzarsi…» vuol dire che conviene tirare la monetina. Costa senz’altro meno di una squadra di economisti che arrivi a queste desolanti conclusioni. Eppure è tutto qui il senso delle previsioni economiche del prossimo anno: uno scientifico, elaborato, econometrico «chi lo sa».
Sono oramai cinque anni che il mondo, chi più, chi meno, cresce che è una bellezza. Tassi d’interesse bassissimi, borse in cerca di rivincita dopo le batoste del periodo 2001-2003, giganti in via di sviluppo con i loro mercati infiniti ed eserciti di lavoratori che producono a ritmi ottocenteschi. Capitali finanziari immensi alla continua ricerca di occasioni d’investimento. Questi alcuni degli elementi del recente boom. Nel cuore del meccanismo, però, c’è un punto debole, che abbiamo raccontato tante volte su left: l’economia Usa. Che in questi anni si è comprata tutto quel che c’era da comprare, sostenendo la domanda mondiale, a credito. Ovvero indebitandosi.
Come in tutti i processi di indebitamento arriva un punto in cui i creditori dicono basta, e chiedono di rientrare. Questo processo è già iniziato nel 2007, manifestandosi nella crisi della finanza derivata legata alla bolla immobiliare.

L’incognita del 2008 è quindi: soft o hard landing, per dirla all’anglosassone. Atterraggio duro o morbido? Che di atterraggio si tratti, ovvero di una perdita di quota, è assodato. Gli Usa si fermano, l’Europa sta seguendo, l’Asia seguirà. Per l’Italia vuol dire che la crescita dell’anno prossimo sarà più vicina all’1 che al 2 per cento. Con quello che ne consegue: meno crescita dell’occupazione, minori entrate fiscali (e collegata necessità di ritoccare la Finanziaria l’anno prossimo).
Il problema fondamentale è che ci sono tanti debiti in giro che non verranno ripagati. Ovvero ci sono tante banche, istituzioni, fondi, privati cittadini, che non rivedranno i loro soldi e quindi saranno un po’ più poveri. L’elemento strategico fondamentale che separa lo scenario dell’atterraggio “morbido” da quello più catastrofico è proprio la distribuzione di queste perdite. Ricadranno su spalle forti che possono permetterselo, su istituzioni deboli che falliranno, o su individui le cui vite verranno schiacciate?

Succederanno tutte queste cose insieme ovviamente, ma l’unica speranza per la stabilità sistemica è che le perdite dei grandi operatori siano prevalenti. Una grande banca può tirare la cinghia per un paio d’anni, ridurre un po’ i costi, magari cercarsi un socio per ricapitalizzare. Quelle piccole vengono semplicemente spazzate via. Il capitalismo finanziario è incredibilmente flessibile ed efficiente. Quando è colpito si ristruttura. Se può scarica verso il basso riorganizzandosi, con licenziamenti, riduzioni di salario, eccetera. Quando non basta, o contemporaneamente, cambia la proprietà. Perché qualcuno che ha i soldi per portare avanti un’impresa c’è sempre. Il capitalismo si riorganizza anche così, cercando nuovi padroni che portino nuovi capitali.

Nuovi padroni arrivano. I sovereign funds. Questo sta accadendo a ritmi forsennati in questi mesi. Chi ha i soldi? Semplificando: arabi, cinesi e russi. Ovvero i Paesi esportatori che hanno accumulato riserve finanziarie enormi nei loro fondi e nelle banche centrali. Chi ne ha bisogno? Americani in testa, inglesi ed europei a seguire. E il gioco è fatto. La peculiarità è che non si parla di risorse private in mano a privati cittadini che liberamente investono all’estero. Le operazioni più imponenti vedono al lavoro fondi di proprietà statale, i famigerati “sovereign funds”. Quando un fondo statale cinese a maggio annunciò che avrebbe investito tre miliardi di dollari in Blackstone, un’azienda di private-equity di New York, divenne chiaro a tutti che i cinesi si erano stufati dei bot americani ed erano pronti a infilarsi in qualunque affare interessante. I primi 12 fondi al mondo hanno dimensioni che vanno dai 20 miliardi (la Corea del Nord) agli 875 miliardi di dollari degli Emirati arabi. L’intera offerta mondiale di azioni è di circa 55.000 miliardi di dollari, e quasi altrettanto quella di obbligazioni. I fondi statali potrebbero presto diventare gli acquirenti più importanti. Se succedesse, il mondo sperimenterebbe l’intrigante spettacolo in cui le proprie maggiori imprese private sono possedute da governi, la cui fiducia nel capitalismo è spesso modesta. Una volta se un governo comprava delle aziende si parlava di “nazionalizzazione”. Ora i governi comprano anche all’estero. Forse verrà coniato un nuovo termine: “internazionalizzazione”.

Concludendo. Si tira la cinghia. Cresceremo tutti di meno. I cinesi (all’8 per cento invece che al 10) forse non se ne accorgeranno. Ma americani ed europei sì. Di solito si risponde a crescita debole con più spesa pubblica (chi può, Italia esclusa), e tassi d’interesse più bassi (a danno e beffa di chi è corso in questi mesi a cambiare il mutuo da variabile a fisso). Ma anche qui si profilano problemi. La crescita drogata Usa ha di fatto diffuso inflazione nel mondo attraverso il dollaro, valuta con cui si commerciano tutte le materie prime mondiali. E quindi è improbabile che banche centrali mummificate e inefficaci come la Bce agiscano. Insomma, la crescita rallenta, i prezzi salgono, l’euro è troppo forte e sta creando problemi gravi alle imprese europee. Quest’anno parte tutto in salita.
Fa un po’ ridere pensare che la salvezza dell’Occidente l’anno prossimo è nelle mani della spesa pubblica... dell’Oriente.

21 dicembre 2007
dgambera
00mercoledì 9 gennaio 2008 17:22
Aggiugiamoci questa
CREDITO AL CONSUMO: FINDOMESTIC, LE SOFFERENZE NON AUMENTANO

(ASCA) - Roma, 9 gen - Niente problemi per il pagamento delle
rate per almeno il 50% delle famiglie italiane. Secondo
Findomestic, i dati della Banca d'Italia di qualche giorno fa
che rilevavano un aumento delle sofferenze riguardano infatti
i mutui
e non il credito al consumo
.
Il direttore delle relazioni esterne, Gregorio
D'Ottaviano, a margine della presentazione della 14.ma
edizione dell'Osservatorio di Findomestic Banca sul consumo
dei beni durevoli nel Lazio
ha ricordato che ''oltre il 50%
delle famiglie non ha nessuna difficolta' a pagare le rate.
Il 20% ha trovato qualche difficolta' di rimborso. Il peso
del rischio non e' superiore all'1% del credito erogato e
quindi e' un dato fisiologico. Il credito al consumo e'
utilizzato soprattutto - ha osservato - per l'acquisto
dell'auto e di beni durevoli. Una famiglia su due compra
infatti a rate elettrodomestici sia 'bianchi' che 'bruni'.
Non solo, le insolvenze non mostrano nessuna differenza tra
le varie aree del Paese, anche se nel centro sud si ricorre
maggiormente al credito al consumo. Findomestic, che ha base
a Firenze, ha un archivio banca dati di 6 milioni di clienti
e ha ormai una conoscenza molto approfondita delle famiglie.
Dall'osservazione delle intenzioni alla spesa, emerge un
aumento nel nostro paese delle intenzioni di spesa.
Il direttore generale di Findomestic, Salomone Chiapprodo,
ha pero' spiegato che ''stiamo notando che aumenta il numero
delle pratiche che rifiutiamo
''. Inoltre, le persone in eta'
tra i 20 e i 60 anni hanno gia' fatto ricorso al credito al
consumo e vivono prevalentemente al sud con una quota del
61%, contro il 52% al centro e il 43% al nord.
ram/mcc/ss
dgambera
00mercoledì 9 gennaio 2008 17:28
E anche questa
Goldman Sachs: Usa in recessione, tassi al 2,5% entro l'anno

Ci sarà recessione negli Stati Uniti nel secondo e nel terzo trimestre del 2008 e la Fed sarà costretta a ridurre i tassi di interese al 2,5% entro la fine dell'anno. È quanto prevedono gli analisti di Goldman Sachs che pronosticano un taglio di mezzo punto al 3,75% già in occasione del meeting del Fomc del 29-30 gennaio. La banca d'affari americana prevede che i tassi Usa scendano fino al 2,5% entro il 2008. Per l'intero anno, la crescita del pil Usa sarà dello 0,8% contro l'1,8% delle stime precedenti.

Dovendo fare i conti con lo spettro della recessione la Casa Bianca sta prendendo in considerazione un pacchetto di sgravi fiscali per incoraggiare la spesa al consumo e gli investimenti. È quanto rivela il Wall Street Journal, secondo cui il piano, se verrà finalizzato e approvato dal Congresso, «rappresenterà il primo passo importante da parte del presidente Bush per gestire la fase di rallentamento dell'economia».

Nel corso della conferenza stampa di martedì nel Giardino delle Rose Bush ha anticipato che l'amministrazione «esaminerà diverse opzioni», aggiungendo come la Casa Bianca «prenderà in considerazione diversi scenari su quello che potrebbe o non potrebbe accadere». La principale manovra che ha in mente Bush, aggiunge il Wsj, passa per uno sgravio fiscale individuale di 500 dollari e la possibilità alle imprese di dedurre una cospicua fetta della spesa per gli investimenti.
laplace77
00mercoledì 9 gennaio 2008 18:40
e allora pure queste...

16:51 - Usa: Api, -7,053 milioni di barili stock petrolio al 4 gennaio (RCO)

(Il Sole 24 Ore Radiocor) - Washington, 09 gen - Gli stock
di greggio Usa sono scesi nella settimana al 4 gennaio di
7,053 milioni di barili a 290,044 milioni (313,276 milioni
lo scorso anno
). Lo stima l'American Petroleum Institute
(Api), che ha calcolato in aumento le giacenze di benzina,
di 3,013 milioni di barili a 214,553 milioni (216,489
milioni) e quelle di distillati di 5,148 milioni a 139,492
milioni (147,147 milioni). Le raffinerie, secondo l'Api,
nell'ottava hanno operato all'88% del potenziale (89,7% la
precedente settimana e 92,3% un anno fa).


16:36 - Usa: DoE, -6,8 milioni di barili stock petrolio al 4 gennaio (RCO)

(Il Sole 24 Ore Radiocor) - Washington, 09 gen - Gli stock
di greggio Usa sono diminuiti nella settimana al 4 gennaio
di 6,8 milioni di barili a 282,8 milioni (314,7 milioni
l'anno scorso
). Lo rende noto il dipartimento dell'Energia,
precisando che le giacenze di benzina sono aumentate di 5,3
milioni di barili a 213,1 milioni (213,3 milioni) e quelle
di distillati (che comprendono quelle di gasolio da
riscaldamento: -2,3 milioni a 36,1 milioni) di 1,5 milioni a
128,7 milioni (128,9 milioni).
Le raffinerie hanno operato al 91,3% del potenziale (89,4%
la precedente settimana e 90,5% un anno fa).
Le stime degli esperti erano per un calo di 1,2 milioni di
barili per gli stock di greggio e per un rialzo di 1,5
milioni per quelli di benzina e di un aumento di 100mila
barili per quelli dei distillati. La capacita' di utilizzo
delle raffinerie era attesa in aumento di 0,2 punti
percentuali.
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