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Immobiliare, crisi salutare contro il mercato drogato” (Fonte: pagni.blogautore.repubblica.it - 11/04/2014)

Ha creato drammi occupazionali e chiusura di imprese. Ma la crisi che ha colpito il settore immobiliare è stata anche salutare. perchè ha messo fine “a un mercato drogato dalla finanza facile e progetti sganciati dalla realtà”, Calmierando i prezzi e aprendo a nuove riflessioni sul modo di costruire e sull’uso degli spazi urbani. A esserne convinto è Alessandro Maggioni, presidente di Federabitazione-Confcooperative.Che fa il punto su quanto accaduto e fa alcune proposte. Anche provocatorie.

La crisi ha colpito il settore delle costruzioni, con calo di occupati, blocco dei cantieri e crollo dei prezzi. Ma è tutto così negativo? Non è stato in qualche modo salutare per calmierare i prezzi delle abitazioni?

Parto da una considerazione, relativa al calo dei prezzi, rispetto al quale non parlerei di crollo ma, stando alla metafora “sismica”, parlerei di smottamento. Con l’avvio della prima grande depressione immobiliare del nuovo millennio, infatti, non si è vista una brusca e repentina caduta dei valori degli immobili, bensì si è assistito a un progressivo, continuo e costante calo degli stessi, in un periodo relativamente lungo. Ciò perché la gran parte dei cespiti immobiliari incagliati e acquisiti da molti operatori nei momenti appena precedenti la crisi sono stati comprati, nella più parte dei casi, con un’ampia leva finanziaria. Oggi, le banche si trovano nei loro bilanci operazioni immobiliari che non hanno più alcuna speranza di successo alle sopravvalutazioni con cui sono state acquisite. Quindi, la strategia è da un lato quella dell’attesa verso momenti migliori (per le operazioni più appetibili) o una lenta (e saggia) svalutazione per il resto, puntando così a costi di commercializzazione più in linea con le reali esigenze e necessità del mercato.
Anche a partire da ciò arrivo a rispondere alla domanda: no, non tutto è negativo, in relazione alla crisi. Al netto del problema occupazionale e imprenditoriale a cui si connettono spesso drammi umani, penso che in generale si possa dire che la crisi ha agito, per il “mercato immobiliare” drogato da finanza facile e progetti spesso sganciati dalla realtà, da disintossicatore. Si è passati, insomma, da un’offerta sovraprodotta che intendeva generare una domanda ipertrofica e anabolizzata, a una domanda più attenta, consapevole e riflessiva. A una domanda, insomma, più vicina al bisogno primario di abitazione piuttosto che a quello “edonistico”, spesso indotto nel recente passato.
Non è venuto il momento di una riflessione sull’uso del territorio? Che senso ha continuare a costruire se a ogni statistica leggiamo di migliaia di appartamenti sfitti?

Sì, senza alcun dubbio. Il tema dell’uso del territorio e della trasformazione – spesso distruttiva – del “paesaggio” a esso correlata è un tema ineludibile. Ciò non significa avere un atteggiamento luddista e nostalgico legato a un ritorno a una società rurale, bensì comprendere solo come da un rapporto equilibrato tra città e campagna, tra pieno e vuoto, tra artificio e natura si ri-generi quella qualità urbana e territoriale che genera qualità della vita e socialità. Non a caso la parola “paesaggio” deriva da “paese”! In tal senso anche taluni approcci ideologici – utili ma non produttivi di credibili azioni legislative – che considerano come suolo occupato il suolo, per esempio, di un grande parco urbano, non aiutano la causa ma – al contrario – alimentano la reazione.
Rispetto al freno al consumo di suolo libero e al riuso di quello occupato, degradato, sottoutilizzato, sarebbe bene considerare con attenzione una questione a mio avviso fondamentale: se si propongono solo leggi conservative rispetto alla sacrosanta necessità di fermare la trasformazione di aree agricole o verdi in suolo edificabile, senza pensare contemporaneamente a un sistema di agevolazioni (fiscali, procedurali e recanti certezze in tema di bonifiche) per il riuso del suolo occupato, alla lunga – in questo nostro paese a flebile intensità civica – la battaglia sarà persa. Resta sempre troppo vantaggioso economicamente, infatti, distruggere terreno vergine piuttosto che riconvertire quello “contaminato”.
Sul perché si continuano a costruire nuovi alloggi a fronte di una forte offerta di sfitto, in parte si dovrebbe tornare agli argomenti toccati nella prima questione: spesso si è costruito e si costruisce non per rispondere a un bisogno effettivo ma solo per “muovere la macchina” e per indurre domanda.
Nel recente passato poi molto spesso i comuni hanno utilizzato l’urbanistica per fare cassa, ossia agevolando cambi di destinazione d’uso scriteriati, scommettendo su una crescita infinita del mercato (che poi è collassato) per ottenere oneri di urbanizzazione utili a chiudere i bilanci comunali, facendo dei veri e propri “falsi in bilancio”. Senza dimenticare poi che sovente l’edilizia connessa alle trasformazioni immobiliari, anche minute e in sperduti comuni di provincia, è un potente combinato disposto per riciclare denaro sporco (a tal proposito si provi a guardare la qualità urbana espressa in quei territori lombardi segnalati come roccaforti della ‘ndrangheta e si vedrà il trionfo della distruzione di ogni estetica del paesaggio urbano).

Quale qualità del costruito? In passato non si è edificato troppo e male, lontani anni luce dagli standard europei?

Anche qui farei una distinzione. Se per qualità del costruito ci riferiamo alla qualità “urbana” del costruito, quindi non solo guardando al manufatto edilizio in quanto tale, bensì al suo rapporto con lo spazio pubblico, con le funzioni e con la città in generale, la risposta è sì: si è costruito troppo e male.
Se, invece, parliamo di qualità media degli edifici di più recente costruzione – naturalmente con una discreta differenza tra diverse aree terrritoriali – il giudizio non è così secco. La qualità media del costruito (al netto della fondamentale questione estetico-compositiva, spesso maltrattata), infatti risente di una serie di norme che hanno obbligato a rendere performanti gli edifici dal punto di vista energetico, termico e acustico, in linea con quanto accade in Europa.
In ogni caso è indubbio il fatto che non vi sia una coscienza diffusa, sia nella committenza, sia nel ceto professionale, di quanto sia necessario porre il tema del progetto urbano ed edilizio al centro del dibattito, sfuggendo scorciatoie modaiole e figlie delle terrificanti “archistar”, inseguendo invece pensieri collettivi e collaborativi.

Uno dei motivi che ha fatto lievitare i prezzi degli immobili è stato il costo del terreno. Il pubblico potrebbe intervenire in qualche nodo perché il fenomeno si ripeta?

Non ci sono dubbi: il costo delle aree, ossia l’incidenza della rendita fondiaria, è il fattore primo che determina il costo finale di un alloggio. Certo, in talune zone di maggior pregio, anche il peso del profitto immobiliare atteso da un’operazione non è indifferente ma – senza dubbio alcuno – la prima imputata per gli alti costi degli immobili è proprio la rendita.
Tale questione, oggetto di innumerevoli studi di economisti e urbanisti, è strettamente connessa – a mio avviso – con il sottostante regime dei suoli che, nel nostro Paese, è ineludibilmente intrecciato con una soverchiante prevalenza dei diritti del “privato” rispetto a quelli del “pubblico”. Dunque, in partenza, il cosiddetto “pubblico” parte già in svantaggio. A completare il quadro di labilità pubblica su un tema così importante contribuisce – oltre allo scarso civismo collettivo che vede, da sempre, nella trasformazione del suolo un favoloso fattore di arricchimento individuale – vi è una tale frammentazione nella legislazione urbanistica (oltretutto antiquata) che non favorisce l’affermarsi di un forte indirizzo collettivo nella definizione di politiche urbane virtuose, sia qualitativamente sia quantitativamente.
È chiaro che una politica che metta al centro la questione urbana, senza ideologismi, ma con una forte visione prospettica è una necessità e una possibilità che non andrebbe sprecata.