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Crisi come la Grande Depressione? Addirittura peggio (Fonte: america24.com - di Domenico Zappia - 10/10/2011)

La crisi finanziaria come la Grande Depressione? Per David Leonhardt non è così. Purtroppo per noi, il capo della redazione di Washington del New York Times sostiene che la recessione degli anni Trenta conteneva in sé le premesse per il boom economico successivo; mentre l’attuale crisi non presenta alcuna base su cui costruire il futuro economico degli Stati Uniti.

Nonostante la miseria post Grande Depressione, scrive Leonhardt, negli anni Trenta l’economia americana ha fatto degli enormi passi in avanti: sono stati inventati la televisione e il nylon, furono commercializzati i frigoriferi e le lavastoviglie, le ferrovie divennero più veloci e le strade furono migliorate. Come sostiene lo storico Alexander Field, gli anni Trenta “sono stati il decennio con più progressi tecnologici del decennio.

Spesso gli economisti differenziano tra fluttuazioni di breve termine e cambiamenti strutturali. Nessun decennio è più contraddittorio (in questo senso) degli anni Trenta: al contempo, caratterizzato da una delle peggiori fluttuazioni del ventesimo secolo e responsabile per alcuni dei cambiamenti strutturali più importanti di sempre.

Alla luce dei problemi odierni, sarebbe confortevole trovare risposte nella storia ma se c’è da imparare qualcosa dagli anni Trenta è che, come allora, l’attuale congiuntura economica è caratterizzata da un insieme di problemi di breve (la crisi finanziaria) e di lungo termine (il rallentamento nella creazione di nuovi settori industriali, la stagnazione nel campo dell’istruzione e la rapida crescita di settori ambivalenti, come quello finanziario e sanitario). Ci si può dunque chiedere se gli Stati Uniti non siano entrati in una fase di crescita economica negativa, in cui l’alto tasso di disoccupazione sarà un problema strutturale.

Venerdì, il dipartimento del Lavoro ha riferito che la creazione di nuovi posti di lavoro a settembre è stat modesta e che il tasso di disoccupazione è rimasto stabile al 9,1%. Un recente sondaggio condotto dalla sede regionale di Filadelfia della Federal Reserve, prevede che questo non scenderà al di sotto del 7% prima del 2015 –e che dopo, solo raramente sarà inferiore al 6 per cento.

Non troppo tempo fa, un tasso di disoccupazione del 6% sarebbe stato considerato disastroso, nota Leonhardt. Tra il 1995 e il 2007, il tasso ha superato il 6% per un totale di cinque mesi nel 2003 e non ha mai neppure sfiorato il 7%. Per il Times, la crisi finanziaria si è dunque aggiunta a quella strutturale e le due ora traggono linfa l’una dall’altra.

Gli Stati Uniti sono in un periodo molto simile a quello attraversato dall’Europa negli ultimi vent’anni; sono ricchi ma in difficoltà. L’alta disoccupazione alimenterà le paure di un declino. L’arena politica diventerà – come lo è già – tumultuosa. E molti rimarranno senza lavoro.

Circa 6,5 milioni di persone sono senza lavoro da almeno sei mesi, scrive il quotidiano. Dal 2008, diversi altri milioni di persone hanno abbandonato la speranza di trovare un nuovo posto di lavoro. Il dato core sulla disoccupazione sottolinea il nesso tra crisi economica di lungo e di breve termine: molti hanno perso il loro lavoro per la crisi, tanti rimarranno senza lavoro anche dopo che l’economia avrà ricominciato a crescere. Anzi – nota Leonhardt - diverranno un peso per la ripresa.

Per adesso, la causa principale della depressione economica rimane la crisi finanziaria. Anche se i dettagli differiscono da ciclo a ciclo, il risultato delle fluttuazioni è, in genere, lo stesso: (stando a uno spesso citato studio di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff) un decennio caratterizzato da un alto tasso di disoccupazione. E siccome Reinhart e Rogoff fissano al 2007 la data d’inizio della crisi, questo vuol dire che sono trascorsi solo 4 anni dall’inizio della crisi.

Ovviamente, fare previsioni catastrofiche sull’andamento dell’economia americana è un azzardo, scrive il capo della redazione di Washington del New York Times. Negli ultimi 50 anni, i disfattisti hanno affermato che l’America stava perdendo terreno nei confronti di Unione sovietica, Giappone e Germania; solo per essere successivamente smentiti.

Gli Stati Uniti continuano a godere di alcuni vantaggi che nessuna nazione, inclusa la Cina, può vantare: il miglior network di venture-capital, uno stato di diritto stabile, una cultura che celebra l’assunzione di rischi e un’attrattiva senza pari per emigranti. Questi punti di forza sono spesso la forza dietro la nascita del prossimo settore industriale di punta -anche nei momenti di difficoltà. È quanto accaduto negli anni Trenta; è quanto si è ripetuto negli anni Novanta con internet.

Ciononostante, nota Leonhardt, i motivi di preoccupazione oggi sono numerosi. Anche prima dell’inizio della crisi finanziaria, l’economia americana non stava attraversando un momento particolarmente felice. La creazione di nuovi posti lavoro non riusciva a tenere il ritmo dell’espansione demografica, e la quota di adulti regolarmente impiegati calò. Mentre per coloro con lavoro, la crescita dei salari stentava a tenere il passo dell’inflazione.

Per cercare di dare una spiegazione unitaria a ciò che sta accadendo, secondo il Times, non resta che guardare a quanto successo negli anni Trenta. Allora gli Stati Uniti stavano aumentando la loro capacità produttiva, in parte grazie all’eliminazione di alcune inefficienze ma perlopiù grazie all’introduzione di nuove tecnologie. Quei cambiamenti, uniti all’industrializzazione legata allo sforzo bellico relativo al secondo conflitto mondiale, erano le premesse per il boom del Secondo dopoguerra. Oggi invece l’economia non ha fatto molto per migliorare la sua capacità produttiva, nota il Times. Ha ridotto le inefficienze e migliorato la produttività ma non ha portato allo sviluppo di alcun nuovo settore industriale dove possano trovare impiego il gran numero di lavoratori in eccesso. Per Leonhardt, non c’è alcuna versione contemporanea del boom delle ferrovie del 1870; non c’è una nuova industria paragonabile a quella automobilistica degli anni Venti; e nemmeno una nuova internet.

Una spiegazione può essere trovata nelle competenze dei lavoratori americani. Secondo il quotidiano, gli Stati Uniti sono l’unico paese industrializzato che negli ultimi trent’anni non ha aumentato il numero di lavoratori laureati. E, a peggiorar la situazione, Washington ha deciso di non accogliere buona parte dei ricercatori e degli imprenditori desiderosi di stabilirsi negli Stati Uniti.

Il rapporto tra competenze e successo economico nazionale non è un indicatore esatto, nota Leonhardt. Ma Australia, Nuova Zelanda, Canada e buona parte dell’Europa settentrionale hanno fatto dei grandi passi in avanti a livello di formazione dagli anni Ottanta e i loro tassi di disoccupazione – una volta superiori a quello americano – sono adesso inferiori.

Oltre all’istruzione, l’economia americana sembra soffrire anche di un’allocazione di risorse approssimativo –in parte non controllabile da Washington (il riferimento è alla svalutazione dello yuan da parte della Cina). Ma perlopiù attribuibile a tre settori in larga parte improduttivi come quelli finanziario, sanitario e immobiliare.

Il sistema di assistenza sanitaria americano è cresciuto a dismisura e gli Stati Uniti adesso spendono per ogni individuo il 50% in più di qualsiasi altra nazione, ma i risultati sono deludenti. Il contrasto sembra dunque suggerire l’esistenza di sacche di inefficienza. Nel frattempo nel settore finanziario il volume degli scambi è aumentato a dismisura senza però aver migliorato gli standard di vita.

Leonhardt dunque si chiede se le risorse impiegate in questi settori non possono trovare un’ottimizzazione in qualche altro settore. Finanza, sanità e settore immobiliare contribuiscono alla creazione di posti lavoro nel breve termine ma non assicurano nulla nel lungo. In questo, differiscono da quei settori che nei boom del passato hanno fatto da traino per l’intera economia. Si unisce al coro l’economista di Harvard Lawrence Katz, “il problema del settore sanitario è simile a quello del finanziario: gente di talento spreca tempo in attività improduttive”.

Gli Stati Uniti ha sempre rimpiazzato le industrie meno dinamiche con altre più produttive. La sostituzione della carrozza con la macchina non ha comportato problemi. Oggi invece – nota il Times - l’avvicendamento crea diversi problemi macroeconomici; ma questi sarebbero anche tollerabili. Il vero problema è che all’orizzonte non si vedono nuovi settori industriali che possano servire da traino per l’intera economia. Per Katz, “il problema non sono i licenziamenti quanto la mancanza di assunzioni”.

Se la storia dovesse ripetersi, la situazione dovrebbe prontamente migliorare, sostiene Leonhardt. Ma per adesso le prove per un tale ottimismo sono poche e l’economia è lontana milioni di posto di lavoro da poter esser considerata sana.