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Demografia e mercato

Ultimo Aggiornamento: 26/05/2015 15:53
08/10/2009 22:13
 
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immigrazione di ritorno

fonte: corriere

Dalla Spagna a Dubai, dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti

C'è la crisi, i lavoratori stranieri se ne tornano a casa

Sono polacchi, brasiliani, iracheni, lituani: il viaggio della speranza adesso va a ritroso. Il fenomeno non ha confini

I senegalesi lasciano la Spagna della disoccupazione al 20%
I senegalesi lasciano la Spagna della disoccupazione al 20%
Hamza Thiab, 27 anni, ingegnere iracheno, ha lasciato la macchina all’aeroporto di Dubai ed è tornato a Bagdad. Come un turista che molla le chiavi all’autonoleggio e si fionda al check-in con le valigie. Sembra facile. Il fatto è che quella 4x4 giapponese lui non l’aveva affittata. Era proprio sua. Quasi: la stava pagando a rate. Piccola consolazione, non essere l’unico. Certi giorni nel parcheggio dell’aeroporto di Dubai si contano tremila macchine abbandonate. Stranieri come Hamza: perso il lavoro, perso il permesso di soggiorno negli Emirati, in tasca un biglietto di solo ritorno. Certo, tra i cento milioni di “lavoratori migranti” in giro per il mondo secondo le statistiche di Ibrahim Awad, direttore dell’International Migration Programme, c’è chi sta peggio di Hamza l’ingegnere. O di quei 1.100 operai mongoli che, questa primavera, dalla Repubblica Ceca sono rientrati nelle native steppe usufruendo di un contributo del governo di Praga: 500 euro purché compriate un biglietto one-way per Ulan Bator.

La marea del controesodo si disperde in mille incroci. E quasi tutti si pagano il viaggio. È la crisi: ecco le birmane costrette a rientrare sotto la dittatura dalle industrie tessili thailandesi, i filippini che hanno perso il posto nelle fabbriche coreane, i contadini cinesi ricacciati nelle campagne dai cantieri chiusi sulla costa, i nepalesi dei ristoranti di Kuala Lumpur in Malesia deportati in patria, gli uzbeki che riprendono l’autobus giallo con l’usignolo disegnato sopra e lasciano Mosca stanchi di aspettare quattro mesi di arretrati dal costruttore fallito. C’è pure chi vorrebbe ma non può: Bouba Gul, 27 anni, senegalese, è inchiodato in un campo di Huelva, sud della Spagna, con altri duemila (in quattro a turnarsi un materasso): «Sono stanco, vorrei soltanto tornare casa». Una parola: non ci sono barconi di disperati che sfidano il mare in senso contrario. Bouba aspetterà dicembre, quando comincia la raccolta delle olive. Lui e gli altri illegali dovranno lottare più del solito: con la disoccupazione al 20 per cento, gli spagnoli sono tornati a competere per lavori che in tempo di boom economico prima schifavano. Sogni ridotti: fare lo stagionale sulle colline infuocate dell’Andalusia.

Questa guerra tra poveri in Gran Bretagna non c’è ancora, anzi: pare che tra le serre della Cornovaglia e i campi di patate del Lincolnshire la paura sia la mancanza di manodopera per il raccolto. Il governo stima che da qui al 2013 un milione di immigrati dall’Est Europa riattraverseranno la Manica con un volo low-cost direzione casa. Sergejs e Lana, migranti separati, sono tornati in Lituania con il figlio Vladimir di 19 anni. Sergejs ha lavorato tre mesi alle poste di Londra guadagnando più di quanto prende adesso in un anno alla pompa di benzina di Rezekne. La moglie, maestra d’asilo, è stata in Italia: operaia in una ditta di giardinaggio, poi cameriera per un riccone russo. «Crisi mondiale più nostalgia di casa, mix esplosivo» dice lei. Altro Paese, altro mix: rimane la nostalgia, ma al posto della recessione vale la tenuta economica nei Paesi d’origine. Dopo 14 mesi in una banca di Glasgow, la polacca Ania Rosiak ha comprato il biglietto per Varsavia. «Mi sono innamorata della mia città natale» dice alla Bbc.

Sentimenti e moneta: la Polonia è tra i pochi Paesi in Europa a prevedere una (sia pur lieve) crescita (più 1 per cento) mentre gli altri crollano. Nel 2004 la disoccupazione era al 20 per cento, oggi al 7. Adesso i francesi la smetteranno di preoccuparsi per l’invasione degli idraulici polacchi. La nemesi. Così i tecnici che dalla Polonia erano emigrati in Irlanda per lavorare alla Dell si trovano in una strano circolo virtuoso: la Dell ha chiuso la fabbrica di Limerick e l’ha spostata guardacaso proprio in Polonia, a Lodz, dove è tempo di boom. Nessuno sa dire quanti migranti siano tornati in patria a causa della recessione. Non ci sono statistiche. Molti analisti ritengono che la maggioranza cerchi di resistere nei Paesi di adozione. Certo diminuiscono le rimesse, i soldi spediti a casa (da 328 miliardi nel 2008 ai 304 del 2009 secondo la Banca Mondiale). Ma i segnali del controesodo, più o meno forzato, sono innegabili. E persino la Tigre Irlanda, per la prima volta in 15 anni, torna a essere un Paese di emigranti. Certo non come ai tempi delle grandi carestie, ma intanto nell’ultimo anno quelli che sono partiti (65 mila) superano i nuovi arrivi (57 mila). Stessa situazione lungo il confine tra Stati Uniti e Messico. In generale tra resto del mondo e Sudamerica. Molti brasiliani trapiantati in Giappone vanno a lavorare a San Paolo e a Rio. Per i paisanos che si erano integrati tra i gringos tornare è un po’ morire. Carlos Sanchez, 36 anni, 12 vissuti nei dintorni di Washington, dopo aver perso il posto in una ditta di marmi è rientrato al paesello in Guatemala. Che shock. La moglie Marvin non si trova più con i gonnoni Maya, il piccolo Marvin sogna il baseball. «Non so più chi sono, mi mancano i mall, i parchi, il traffico ordinato» dice Carlos. Per ora insegna inglese e dattilografia ai compaesani. S’è costruito la casa vera, di cemento. Lati positivi del controesodo per una famiglia di illegali: uscire (in aereo) è stato più facile che entrare (dentro un camion cisterna). Con chi si “auto-deporta” i poliziotti dell’Immigrazione non fanno storie.

Michele Farina
08 ottobre 2009
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