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OT la crisi è GIA' qui...

Ultimo Aggiornamento: 13/10/2008 10:46
09/10/2008 21:17
 
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Sull’immigrazione: peggio di quanto credessi
Maurizio Blondet


L’Italia sta andando peggio di quel che credono anche i più pessimisti, fra cui il sottoscritto.
Me lo rivelano due lettere, in qualche modo di protesta contro il mio articolo «Non volete immigrati? Mandate i figli a lavorare».
Eccole.
«Sono un laureato in chimica con due corsi di specializzazione post laurea, ho trentun anni e sono
di Napoli.
Dopo tanto penare ‘per anni’ a mandar curriculum in giro per tutta Italia sono riuscito ad avere
un contratto a tre mesi (3) in Liguria (a Isoverde di Campomorone, per l’esattezza), per lavorare
in una aziendina che produceva aromi alimentari.
Dico produceva perchè ora è fallita (o meglio, è stata fatta fallire perchè ai proprietari conveniva venderla per appianare debiti che avevano precedentemente).
Comunque lì mi sono ritrovato, man mano, a capire che non avevano bisogno di un chimico, bensì di un operaio che spostasse con transpallet i carichi di materiale grezzo, che lavasse per terra,
e che all’occorrenza mettesse firme false su analisi HACCP mai avvenute in laboratori inesistenti che certificassero la bontà dei prodotti.
In aggiunta il simpatico capo-responsabile si divertiva ad angariarmi continuamente perchè ero
lento, perchè non riuscivo a spostare un transpallet con una tonnellata (sì, ha letto bene, una tonnellata) di carico in un lampo da una parte all’altra del magazzino, perchè a parer suo non riuscivo a pulire bene a terra, provvedendo a buttare taniche di sostanze chimiche a calci a terra
e poi facendomi ripulire da capo.
Il tutto condito da ‘ti faccio vedere io chi ha la laurea in chimica, Napoli!’ (lui era di Milano).
Dato che avevo bisogno di lavorare, ho continuato a non fiatare e a subire, finchè non ha chiuso
e non mi sono trovato letteralmente in mezzo a una strada.
Si badi che, chimico con due corsi di specializzazione, ero inquadrato come operaio
e guadagnavo sì e no 1000 euro al mese.



Per alcuni giorni ho vagato per Genova aiutato da qualche soldo mandatomi da mio padre giù da Napoli, pensionato dell’Italsider (sono di famiglia operaia e so quanto il pane che viene messo su una tavola operaia costi sudore), finchè non ho trovato un altro posto in un saponificio, dove sembrava mi dovessi occupare di manutenzione di laboratorio, schede tecniche, legge 626 sulla sicurezza et similia.
Ovviamente assunto come ultimo degli operai, e inquadrato come ultimo degli operai, s’intende, a sì e no 900 euro al mese.
Per il primo mese ho fatto un lavoro immenso per cercare di razionalizzare una situazione completamente caotica e creare un lavoro di buona fattura da presentare alle ispezioni che si presentavano.
Per non farla tanto lunga, si va avanti così fino alla fine del primo mese, dopodichè arrivano quelli dell’ispezione, vedono tutte le carte in ordine (di cui molte, ovviamente, falsificate perchè non c’era tempo e soldi per fare tutti i controlli di legge), si congratulano con me e se ne vanno.
Dal giorno successivo, mi si mette una ramazza in mano e mi si dice che sono stato promosso al mio vero lavoro, l’operaio!
Per terminare, il contratto di sei mesi che mi viene fatto scade.
Ora sono tornato a Napoli, disoccupato.
[…] In moltissimi casi la laurea, lungi da aprire prospettive, si rivela essere un vero danno, in quanto i ‘padroni’ (mi scuserà il termine) vogliono per l’appunto solo i ‘senegalesi e marocchini’ che possono permettersi di sottopagare tranquillamente.
Va detto che vengono preferiti i ‘senegalesi e i marocchini’ di cui parla nel suo articolo, non perchè siano più buoni, bravi e belli, ma perchè lavorano senza contributi pensionistici, al nero più nero, senza alcuna garanzia sul lavoro, con turni da macello e trattati come bestie su cui esercitare un potere di ricatto molto maggiore che su noi italiani ‘veri’.
In quella che lei chiama ‘la grande scuola della fabbrica’ io ci sono stato, e mi hanno insegnato umiliazioni, pressappochismo, ottusità, bestialità e, soprattutto, frode e falsificazioni».

L’altra lettera:
«Ho 32 anni e una laurea in ingegneria elettronica; dopo aver lavorato come operaio nelle catene di montaggio (quando ero assunto con contratti a progetto per far funzionare gli ultimi prototipi di macchine di automazione industriale) prima per un mese, poi per un altro... l’ennesima presa in giro… me ne andai...
Se mi avessero detto guarda qui per te c’è solo il lavoro d’operaio, forse starei ancora là...
Segue la mia esperienza di insegnante di informatica (entrato con una raccomandazione) presso vari enti pubblici dopo i quali col cambio del governo, incuranti che ero l’unico ad avere a fine corso un numero maggiori di studenti di quelli che lo iniziavano… tanto che col passa parola
gli alunni portavano in classe amici per ascoltare le lezioni insieme... una ragazza si portò addirittura il fidanzato ‘ciao Marco oggi c’è anche lui, almeno così impara qualcosa’.
Seguirà un periodo di stasi dove ho chiesto apertamente a maggio di questo anno di fare lavori come portiere notturno, receptionist, ecc...
Mi hanno risposto che ero troppo qualificato per fare lavori del genere, e un mio amico mi ha detto che gli immigrati costano molto di meno di un receptionist italiano, ingegnere che sia, possa costare...».



Prima constatazione tristissima: l’Italia non riesce ad occupare decentemente i suoi laureati tecnici.
Non ne ha bisogno.
Perché non ci sono più le industrie che necessitavano di questo settore «alto» del lavoro.
E ciò, dopo che ai giovani è stato detto e ripetuto che, per vincere la competizione globale, dovevano riqualificarsi appunto nei settori alti; che abbiamo troppo pochi ingegneri in confronto a Cina e India, e via predicando.
La cosa è tragica.
Fino a pochi anni fa, la Lombardia pullulava di aziende produttrici di macchine utensili, ad esempio quelle che per destinazione chiara dovrebbero occupare ingegneri.
Le macchine utensili - poi ribattezzate «a controllo numerico», e il settore sfocia nella robotica - sono le macchine che servono a fabbricare le macchine, beni capitali per eccellenza, non merci
di consumo, e fonte di ricerca e sviluppo.
Fino a pochi anni fa, lo stato di sviluppo di un Paese si valutava dal suo settore delle macchine utensili, dal grado di automazione; e in questo l’Italia - all’insaputa degli italiani, perché queste fabbriche non «compaiono» in TV - era fra i primi Stati al mondo.
Dopo la Germania e forse alla pari degli Stati Uniti, e prima della Francia.
Dove sono finite queste fabbriche che ieri volevano, reclamavano, ingegneri e operai specializzati? Sono morte silenziosamente, distrutte dalla concorrenza cinese e asiatica?



Vado a cercare i comunicati dell’associazione del settore (UCIMU) e scopro che nel 2005 la Cina ha scalzato l’Italia nel terzo posto mondiale, in un anno in cui il commercio mondiale di queste macchine è aumentato del 23 %.
E tuttavia, la nostra industria si difende.
Le nostre esportazioni di macchine utensili sono cresciute del 14 %, 2,2 miliardi di euro.
Ma se sopravvive, è in lavorazioni di nicchia: si è specializzata in produzioni quasi su misura a richiesta del cliente.
Lo dice la struttura del settore: sono 400 imprese, quasi tutte sotto i 70 dipendenti (la media in Giappone è 200); e sono le più grandi, non le più piccole, quelle che esportano di più.
Chi resiste in questa nicchia, evidentemente non ha più bisogno di centinaia di ingegneri, nemmeno di quei pochi che si laureano, con duri studi, in Italia.
Quanto alla chimica, l’abbiamo perduta da decenni; niente più chimica fine, niente più farmaceutica. Siamo totalmente dipendenti dalle importazioni.



A che serve laurearsi in chimica?
Fabbrichette arretrate che campano con la frode, ti offrono posti precari da scaricatore e addetto alle pulizie.
L’esperienza amara dei nostri due lettori è illuminante del degrado profondo e malato della struttura economica italiana, anzi della società.
E i giovani che sono disposti a fare i lavori «che gli italiani rifiutano», si sentono dire che sono «troppo qualificati».
Quei lavori sono per gli emigranti, i soli di cui si occupano la Caritas e le burocrazie «caritative»; non accade mai che la carità pelosa «cattolica» si occupi degli ingegneri che non trovano lavoro: non cercano abiti usati, né piatti di minestra, la facile e pelosa carità somministrabile agli «ultimi».
E’ una retorica, dietro cui si nasconde un business (i caritatevoli ricevono contributi statali per ogni assistito, ovviamente), che lascia i nostri giovani nella trappola: non c’è lavoro per te come ingegnere; se chiedi di fare il portiere, sei troppo qualificato.
Non puoi fare nemmeno i lavori che «gli italiani rifiutano».
Ciò rompe radicalmente un tacito legame, impalpabile, che univa le generazioni, un legame di lealtà.



Questo è il risultato dell’adesione al «mercato» di tipo anglosassone, funestamente entusiasta all’inizio, della nostra sedicente classe dirigente politica e imprenditoriale.
Per gli imprenditori, la dottrina del privatismo, che ha reso il lavoro una merce come ogni altra (basata sul prezzo), si è tradotta nella sua forma più patologica: lo sfruttamento, la dequalificazione, il menefreghismo assoluto verso i dipendenti.
Arrangiatevi ragazzi, ora vige il privato.
E mica vorrete il lavoro a vita…
Per confronto, penso alla ditta farmaceutica in cui lavorò - per tutta la vita - mio padre.
Quando si ammalò gravemente, il direttore del personale dell’epoca - era un conte, un aristocratico - telefonò personalmente a mia madre, le chiese se poteva permettersi spese, credo le abbia dato del denaro; e la assicurò che il posto ci sarebbe sempre stato, per mio padre (quando morì, fu assunta mia sorella).
La ditta era la casa, i dirigenti si sentivano attivamente responsabili dei dipendenti.



Non è ciò che s’insegna alla Bocconi: s’insegna che il lavoro è «un costo», e che va liquidato e alleggerito alla prima occasione.
Stranamente l’Italia andava meglio quando gli aristocratici milanesi, capi del personale, mettevano la lealtà fra azienda e lavoratori prima dei «costi».
Tutto questo «taglio sui costi» bocconiano ci ha portato all’arretramento nel mondo, a dipendenza crescente dall’estero, a impoverimento generale.
Qui, la colpa è dei politici.
La dottrina liberista - che vieta alla Stato di occuparsi di imprese - l’hanno tradotta come un immenso scarico di responsabilità: lo Stato non si occupa più nemmeno di economia generale, di mantenere il Paese all’altezza nel mondo.



E' avvenuto un grande rapidissimo cambiamento - la competizione globale, i salari cinesi ci hanno distrutto - e questa classe politica non ha fatto niente.
Anzi peggio: si è chiusa nella sua sfera dorata dove si dà stipendi miliardari, ben salda al riparo dalla competizione globale (mica possiamo importare magistrati e funzionari cinesi a 200 euro mensili), estraendo questi emolumenti da un Paese che stava velocemente impoverendo, e socialmente degradandosi.
Nella storia d’Italia, non c’è mai stata una classe burocratica, che abbia presieduto a una così tragica fase di impoverimento, e così ricca, enormemente più ricca dei suoi cittadini.
Le responsabilità dei sindacati sono anch’esse enormi: non hanno segnalato il mutamento in atto e le sue patologie; in contatto col mondo del lavoro, hanno badato ad addormentarlo, non sono stati culturalmente in grado di vedere dove si finiva.
Del resto, ormai, gli iscritti ai sindacati non sono più lavoratori, ma pensionati.
Certo non interessati allo sviluppo generale.



Ora una mia amica che abita in Russia e viene periodicamente, trova l’Italia ferma, senza forza intellettuale, completamente disorientata e istupidita.
Senza qualcuno che dia la direzione; del resto, dove lanciarsi?
Come quasi tutti i Paesi europei, infatti, l’Italia è stato un Paese culturalmente retto dal dirigismo.
Il «liberismo globale» anglosassone, che ci è stato imposto da fuori, non lo comprendiamo e non lo viviamo nel modo giusto: anzi, ci fa male.
La Russia aveva ben più del dirigismo, la socializzazione forzata, l’abolizione della proprietà privata: le rovine del «liberismo», là sono state anche peggiori.
Ma ora, ogni giorno con sempre maggior sicurezza, sta adottando il dirigismo - l’indicazione di traguardi nazionali da parte del potere, l’educazione all’ambizione non privata ma collettiva, ad essere qualcosa nel mondo come nazione - che noi abbiamo abbandonato.
In Russia, nonostante tutto, c’è più vivacità intellettuale, dice la mia amica.
E ci ha fatto male l’Europa a-democratica, dove il discorso pubblico è limitato, dove non si deve parlare di certe cose.
Ci ha fatto male anche l’'euro: l’Europa non ha dato direzioni, solo regole su regole; ha dato prescrizioni invece che orizzonti e traguardi.
Ed è ovvio, perché una burocrazia non sarà mai la madre di nazioni, né sostituirà mai la nazione.
In Europa, accade questo: che la Germania, a forza di tagli crudeli sulla pelle dei suoi lavoratori, s’è rese «competitiva», grande esportatrice di nuovo: a spese di Italia e Francia, i cui «costi sociali» sono rimasti alti.



Non siamo soci di un progetto comune; siamo concorrenti sul mercato globale, restiamo avversari sotto la trappola pseudo-unificante dell’euro.
E’ questa l’Europa Unita?
L’Europa ci predica la «flessibilità», la competizione, ci dice che dobbiamo rassegnarci al «mercato», quello per cui i giovani non trovano lavoro che precario.
Non ha visto in tempo - stupida, come ogni burocrazia - che la Cina non ci avrebbe spiazzato solo dai settori «bassi» (tessile, scarpe, cemento) ma dai settori d’alta gamma tecnologica a cui la burocrazia incitava i giovani.
Non c’è stato pensiero, non c’è stata elaborazione, e nemmeno sostegno dopo la rovina.
Solo, negli ultimi tempi, visto che i consumi languono, veniamo incoraggiati a «sostenere la domanda interna»: per poi scoprire che lo stimolo alla domanda non giova alle aziende locali, ma provoca un aumento rapidissimo delle importazioni.
Perché ciò che oggi i consumatori vogliono comprare non è più prodotto in Italia né in Europa: i telefonini da Taiwan, le scarpe Reebock dalla Cina... persino il cibo locale non è più richiesto, dalle nuove generazioni degenerate fin nel gusto; e così la musica pop, lo spettacolo, persino l’architettura: è richiesto solo quello che compriamo dall’estero.
Bisognava sostenere l’offerta, non la domanda.
Ma ciò comportava l’indicazione di traguardi e settori strategici, la promozione culturale di chi se ne occupava, lo stimolo al senso di lealtà fra le generazioni, unite nel comune destino: insomma, ancora una volta, «dirigismo» sia pur in regime di proprietà privata e pluralismo economico.
Ma appunto di questo è vietato parlare.
Un argomento tabù: parlare di dirigismo sarebbe in qualche modo «fascista», parola su cui grava un sacro interdetto.





E’ impossibile aprire il discorso, esaminare quello che nel «fascismo» (nei dirigismi europei del ventesimo secolo) funzionava, e se è possibile separarne la lezione economica dalla lezione politica, il cosiddetto «totalitarismo» (che forse, poi, era meno totalitario del conformismo mediatico di oggi, e sicuramente meno del socialismo reale staliniano: manteneva la proprietà privata, ma lo Stato interveniva per salvare le competenze umane e professionali che i padroni gettavano sulla strada come un costo).
A forza di tabù stiamo soffocando e istupidendo.
Siamo degenerati perché costretti a vivere in un universo economico che non ci appartiene, in un «liberismo» mercantile e finanziario che non è nostro, perché non è stato elaborato da noi.
Abbiamo gettato nel cesso tutti i nostri patrimoni storici, per nulla.



A cosa porterà tutto questo?
Al Sudamerica.
Alla borghesia compradora chiusa nei suoi quartieri di lusso circondati da mura e sorvegliati da guardie armate, per difendersi dalla violenza e dai furti di una popolazione giovanile perennemente disoccupata, eternamente senza reddito certo, e senza istruzione perché «non è richiesta».
Da questa devastazione della lealtà reciproca nasce, inarrestabile, la violenza.
E con in più, la concorrenza degli immigrati di colore e di altra fede: l’ideale per fare della questione sociale una miscela esplosiva di tipo razziale.
Il Sudamerica oggi si dà capi-popolo venuti da questo popolo inoccupabile e degradato, ossia ignoranti: Chavez ne è l’esempio, che i nostri uomini di sinistra ultrà - ignorantissimi - stanno imitando.
Ma Chavez ha almeno il petrolio.
E noi?

Maurizio Blondet

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