IL PESSIMISMO DELLA RAGIONE
Ci sono in giro degli ottimisti (i quali certamente piacerebbero al presidente del Consiglio) i quali sostengono che nel giro di qualche settimana la recessione americana sarà finita. E quindi, sempre nel giro di qualche settimana, dovremmo essere fuori da questa tempesta che nei mesi più duri dell’inverno aveva fatto dubitare persino della stabilità del mondo che conosciamo. Secondo gli stessi ottimisti, nel giro di qual che mese, anche l’Europa abbandonerà la recessione e si uscirà tutti finalmente (l’Asia non è mai andata in recessione) da questo incubo, la cui data di partenza può essere collocata verso metà settembre del 2008.
Quindi ha ragione il Cavaliere? Tutti a comprare e a spendere perché finalmente stiamo tornando nel mondo di “prima”? E, magari, su anche con il rialzo di Borsa?
A costo di fare un dispetto al nostro presidente del Consiglio conviene essere ancora un po’ prudenti. L’America è vista, da osservatori attenti e prudenti, ancora in recessione fino a fine anno e la crescita nel 2010 dovrebbe essere di poco superiore all’1 per cento. Un po’ poco per trascinarsi dietro il mondo intero verso una nuova stagione di felicità e di soldi. Non solo: si pensa che negli Stati Uniti la disoccupazione continuerà comunque a crescere per tutto il 2010 e forse anche oltre, mantenendo così molto basso il tasso di espansione di quell’economia.
In Europa, come è logico, le cose andranno un po’ peggio e un po’ più lentamente. Quest’anno l’economia dell’area euro va giù del 4,5-5 per cento. E, visto che i nostri maggiori e più interessanti, clienti stanno proprio in quest’area, non si vede come noi si possa fare meglio. Anche perché non abbiamo i soldi per finanziare una robusta ripresa della domanda interna. Per correre al supermercato a fare il pieno di qualsiasi prodotto non basta purtroppo l’ottimismo del Cavaliere (e nemmeno le sue reprimende): ci vogliono proprio i soldi. E questi scarseggiano. E non torneranno tanto presto.
L’ipotesi, insomma, che quest’anno la nostra economia vada giù del 4-5 per cento non è campata per aria. A meno che qualcuno non ci spieghi come si fa a fare meglio di tutti i nostri vicini di casa.
Ma la questione non è nemmeno questa. I punti veri sono altri due. Nel mondo imprenditoriale tira un’aria molto avvelenata. Molti aspettano di vedere che cosa cambia di qui a agosto, e poi sono pronti a non riaprire (mancano gli ordini, manca il credito, ecc.).
Questo spiega, probabilmente, l’atteggiamento più duro di Confindustria nelle ultime settimane: dalla base deve essere arrivato qualche segnale concreto di allarme. Insomma, c’è una specie di nuvola di tempesta che si aggira sull’industria italiana. E basterà poco per far scatenare fulmini e grandine. Questo la gente che lavora lo sa, e per questo ha paura. Non tutti sono sicuri di riavere a settembre il posto (e lo stipendio) che hanno oggi.
L’altra questione riguarda il “dopo”. Che cosa succederà una volta finita la recessione? L’ipotesi più ragionevole (a meno di non credere in San Gennaro o in qualche altro santo) è che l’economia italiana riprenderà la sua fiacca corsa al ritmo a lei consueto: 0,5-0,7 di crescita all’anno. Ma se quest’anno si perde davvero il 5 per cento di Pil, per riavere il Pil dell’anno scorso (2008) serviranno 7-8, forse dieci anni.
Per carità, meglio che andare del tutto a fondo, che fare naufragio tutti insieme. L’importante è essere fuori dall’incubo e aver salvato la pelle. Ma è del tutto evidente che una prospettiva del genere (un lunghissimo purgatorio) non può entusiasmare la gente e stimolare i consumi più di tanto.
In sostanza, ci vorranno fra i sette e i dieci anni per tornare a essere ricchi come lo eravamo appena 12 mesi fa. Essere cauti e prudenti, in una situazione del genere, è semplicemente un’azione di legittima difesa, di buonsenso.
Scritto il 29/06/09 alle 15:56 nella Finanza - Economia | Permalink | Commenti (0)
FERMO UN TERZO DELL'INDUSTRIA ITALIANA
Può anche stupire che il presidente di Confindustria, che ha sempre cercato di andare d’accordo con tutti (e soprattutto con il governo in carica), nelle ultime settimane abbia perso un po’ la pazienza e abbia deciso di strattonare con una certa ruvidezza maggioranza e ministri. Atteggiamenti così forti non sono nel carattere dei Emma Marcegaglia e, fino a poco tempo fa, si pensava che non facessero parte dello stile di questa Confindustria.
Ma allora che cosa è successo? Per rispondere alla domanda basta fare la fatica di andare su Bloomberg o sul sito dell’Istat e tirarsi giù il grafico della produzione industriale dal 1998 in avanti, fino ai giorni nostri. Ci sono, naturalmente, alti e bassi, momenti buoni e momenti meno buoni. Ma, come media, l’indice della produzione industriale viaggia intorno a quota 101. Ogni tanto c’è qualche picco che si alza un po’ più degli altri e che quindi si fa notare.
Uno di questi arriva proprio nella primavera del 2007, un po’ più di un anno fa. E è un bel picco, che va fin sopra quota 108. Se non si sapesse che cosa è successo dopo, si potrebbe anche immaginarlo come il trampolino di lancio verso nuove mete e nuove conquiste (direbbe un politico).
Invece, a partire da quel momento c’è la Grande Crisi e il mondo si rovescia. La linea dell’indice della produzione industriale assume le sembianze di un mattone che va giù da un palazzo di trenta piani e attualmente lo si ritrova a quota 81 (dati di marzo). Nel frattempo è quasi certo che ha perso altri colpi.
Basta poco per arrivare a concludere che nel giro di un anno, gli industriali hanno visto sparire fra il 30 e il 35 per cento (a seconda dei settori) della loro produzione. In pratica hanno visto sparire un terzo della loro attività. E non sono affatto sicuri che la vicenda sia finita qui. Osservatori abbastanza attenti sostengono infatti che il peggio arriverà nei tre mesi che abbiamo davanti: luglio, agosto e settembre.
Poi, la morsa della crisi dovrebbe attenuarsi, ma i novanta giorni che abbiamo davanti saranno i più difficili da molti anni a questa parte.
A rinforzo di questa tesi arriva adesso un report della banca Morgan Stanley (abbastanza ottimista, per la verità), che comunque solleva parecchie ansie. Gli economisti che hanno redatto il rapporto non sono particolarmente gufi. Anzi, nel loro scenario base l’Italia perde nel 2009 solo il 4,7 per cento del Prodotto interno lordo (circolano stime peggiori) e già nel 2010 mette a segno un aumento dello 0,7 per cento. Che non è molto, ma che comunque mette fine alla serie dei numeri negativi.
Bisogna però fare attenzione: gli stessi economisti hanno elaborato anche uno scenario “orso” che nel 2010 ci vede perdere un altro 1,6 per cento di Pil.
Ma, anche rimanendo sullo scenario base, c’è un dato che preoccupa (e è la stessa cosa che preoccupa gli industriali e la Marcegaglia). E cioè: anche di fronte a decorso “normale” della crisi, alla fine nel 2010 ci si ritrova con il 12 per cento di disoccupazione (nel 2006 si era a meno del 7 per cento). Il che significa qualche milione di posti di lavoro in meno e quindi qualche milione di buste paga svanite. Difficile immaginare in questo contesto che la gente faccia la fila al supermercato. E infatti gli economisti di Morgan Stanley hanno stimato che nel 2010 ci sia un calo dell’1,2 per cento del reddito reale disponibile delle famiglie. Cosa successa pochissime volte nella recente storia italiana.
In conclusione, già oggi è molto dura perché di fatto un terzo della nostra industria è rimasto a braccia conserte, senza produrre nulla e senza fare nulla. Ci aspettano novanta giorni pesantissimi. E nel 2010, quando in teoria saremo fuori dalla crisi, ci sarà una disoccupazione record, che ci riporterà indietro di qualche decennio.
Facile capire, a questo punto perché sindacati, industriali e cittadini siano via via sempre più nervosi e insofferenti.
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