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Parco Leonardo SEMPRE PIU IN LIQUIDAZIONE

Ultimo Aggiornamento: 28/10/2015 22:51
09/04/2009 00:31
 
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Chiedo scusa a ciciolo, ma mi sembra che ci caschi a fagiolo qualche considerazione che srissi tempo fa a proposito del lavoro, della rendita e della felicità, su uno dei tanti forum che fraquentavo. E' sicuramente OT, ma lo lascio ugualmente alle Vs considerazioni, perchè è un'attitude che guida un po' tutti i miei pensieri sulle attività "economiche".
Circa il fatto che i buoni investimenti non sarebbero lasciati al "popolino", quest'idea presuppone quella del "complotto", secondo cui TUTTO è già deciso, stabilito, guidato, ecc. L'unica legge valida per me è quella del "caos". Cercare un ordine nelle cose, anche quelle economiche è solo un esercizio di stile. Pensare che un "grande fratello" controlli e disponga in barba a noi è avvilente e secondo me, impossibile. Tant'è vero che gli investimenti anche redditizi, li fanno tutti, anche i sempliciotti.
Detto questo... sorbettatevi il mio "pistolotto"...

Considerazioni sparse sul lavoro e sulla felicità


Se dividiamo la nostra giornata in “tempo lavorativo” e “tempo NON lavorativo o tempo libero”, il lavoro è solo l’unico sistema (onesto), che l’uomo normale ha per “guadagnarsi” il tempo libero. Sostengo questa tesi da molto tempo, insieme ai pensieri che seguono, che per alcuni saranno molto terra terra, ma esprimono, a mio parere, un sentire comune.
E’ inconfutabile che in assenza di impedimenti l’uomo farebbe prevalentemente solo ciò che sceglie di voler fare.
Essere costretti non piace a nessuno e, nei fatti, il lavoro, come lo studio o il servizio militare (quando era obbligatorio) o la detenzione, sono vere e proprie costrizioni. Nessuno infatti è libero di scegliere di NON lavorare, altrimenti non guadagnerebbe i soldi necessari per mangiare, vestirsi e vivere una vita sociale dignitosa che comprenda, oltre alle soddisfazioni spirituali anche quelle materiali.
Tutti, in qualche modo, DOBBIAMO lavorare non solo per un’esigenza primaria, ma anche per aspetti che non definirei per nulla secondari.
Al lavoro infatti è collegata certamente una “considerazione sociale”: chi lavora è parte attiva di un ingranaggio e riscuote considerazione. Chi è disoccupato vive ai margini e spesso è scansato ed evitato come un appestato. Questo se da un lato provoca in chi non lavora un senso di frustrazione e di depressione, dall’altro attribuisce al lavoro un valore positivo assoluto.
La nostra società infatti è imperniata sul “valore” del lavoro che addirittura “nobiliterebbe” l’uomo, quando, a parer mio il lavoro, inteso come comunemente lo si intende, dovrebbe essere addirittura un “disvalore”, cosicchè chi si impegna tantissimo e per molte ore al giorno in una qualsiasi attività lavorativa dovrebbe essere compatito, mentre il “nullafacente”, in senso lavorativo, dovrebbe essere invidiato. In realtà questo è un pensiero tipico della società industriale, perché fino al 1700 non è mai stato così. Il “nobile”, l’aristocratico, il filosofo, lo studioso, l’artista, non hanno mai lavorato (nel significato odierno del termine), ma hanno “oziato” (nel senso romano del termine), dedicando la loro vita a cose diverse, in alcuni casi più “alte” del lavoro: chi ha studiato scrivendo trattati di filosofia, scienze ed altro, chi ha composto musiche, chi ha scolpito statue, chi, molto più modestamente ha pensato a “godersi il suo tempo”, facendo quello che più voleva fare.
Questo è stato vero non soltanto per i ricchi. I poveri, infatti, non hanno mai lavorato per produrre ricchezze per se o per altri, hanno sempre lavorato per la propria sussistenza, e cioè il minimo indispensabile con tempi scanditi dalle stagioni e non dai minuti come succede oggi (leggi in proposito anche i saggi di Domenico De Masi).
Il lavoro inoltre, oltre ad essere una imposizione implicita (altro che diritto) è pure inevitabilmente fonte di stress. Non entro nel dettaglio perché è sufficiente ricordare rapidamente i vincoli legati all’orario, i problemi legati al traffico ed al periodo di trasferimento verso e da il posto di lavoro, le regole scritte e non scritte legate ai rapporti gerarchici all’interno dell’organizzazione lavorativa, le liti con i colleghi e/o i fornitori/clienti, le scadenze, le troppe cose da fare, e così via.
Il luogo di lavoro è poi lo specchio fedele di tutte le peggiori caratteristiche comportamentali del genere umano: invidia, arrivismo, carrierismo, opportunismo, irriconoscenza, stupidità, ecc.
In definitiva, dunque, lavorare è un’attività scarsamente raccomandabile e, ove possibile, da evitare.
Per questo non posso condividere atteggiamenti da “esaltati” yuppes e carrieristi, nei confronti del lavoro e per quanto mi riguarda, i teorici delle filosofie di “qualità del lavoro e di aziendalismo col sorriso” (leggi per esempio Manslow), possono tenersi le loro teorie.
Questo, naturalmente non implica, che nell’orario lavorativo e anche oltre uno non debba profondere tutto il suo impegno professionale, facendo il massimo delle sue possibilità. Vuol dire solamente che uno non deve fare del lavoro la prima cosa della propria vita e, soprattutto non deve riporre aspettative eccessive, in termini di soddisfazioni, carriera o stipendio, nel lavoro che svolge.
Stabilito che il lavoro NON può che dare poche ed effimere soddisfazioni e soprattutto “cucite” apposta per chi ha caratteri competitivi e gode nell’acquisire potere sugli altri, è chiaro che l’unico fine concreto del lavoro è lo stipendio che ti consente di vivere il tempo libero dal lavoro.
Per migliorare la qualità della propria vita è necessario, dunque, migliorare la qualità del proprio tempo libero. Escludendo da questa trattazione le gratificazioni derivanti da impegno sociale, volontariato, partecipazione religiosa o politica e simili, in quanto troppo spirituali e non facilmente quantificabili, ancorchè importantissime per definire il grado di felicità personale, mi riferirò solamente alle “cose” tangibili.
E’ chiaro allora che la qualità della vita sarà migliore non soltanto quanto maggiore sarà la quantità di tempo libero a disposizione dell’individuo, ma anche quanto più questo tempo libero sarà riempito da cose da fare o da avere. Se cioè io ho un sacco di tempo libero, ma non ho i soldi per andare al cinema o al ristorante, avrò, in linea di massima, un grado di qualità della vita più basso di chi ha meno tempo libero di me, ma può permettersi di sfruttarlo meglio.
Ragionando con questo criterio, il lavoro migliore – a meno che non si tratti di un lavoro che coniuga le passioni o la vocazione del soggetto, come potrebbe essere quello dell’artista, o del prete, o del missionario - sarà necessariamente quello che ti impegna il meno possibile e ti rende il più possibile in termini di stipendio. Vivere di rendita, per esempio, è il massimo raggiungibile perché minimizza drasticamente il periodo della giornata dedicato a guadagnarsi il tempo libero e massimizza quest’ultimo.
Credo che il tutto possa sintetizzarsi nella formuletta:

Soddisfazione personale = K * ore tempo libero/ore di lavoro

dove K è un coefficiente che tiene conto in maniera direttamente proporzionale del valore dello stipendio ed in maniera inversamente proporzionale del livello di stress del lavoro secondo una graduatoria per cui un Dirigente generale ha più stress di un usciere.
Tutto questo ragionamento non esclude che nel proprio tempo libero, uno non possa anche svolgere un lavoro, che in quel caso, però, sarebbe privo di tutti quegli stress legati al lavoro “obbligatorio”.
In questo senso, dunque, il lavoro di Berlusconi, per esempio, che secondo il criterio descritto dovrebbe essere tra i peggiori, in quanto nonostante l’elevato reddito avrebbe “zero” tempo libero, diventa estremamente gratificante perché si sovrappone interamente agli interessi e alle passioni del soggetto. Certo, io al suo posto farei il giro del mondo in crociera 3 volte all’anno, ma solo perché io ho un altro concetto di felicità.
In ogni caso, di redditieri e di Berlusconi ce ne sono pochi e a noi comuni mortali tocca fare il più delle volte un lavoro non scelto e non gratificante, per cui l’atteggiamento giusto, secondo me, è fare buon viso a cattivo gioco e non prendersela troppo quando le cose non vanno come dovrebbero, con quel sano e un po’ cinico distacco, derivante dalla certezza che la giornata lavorativa comunque finirà, che arriverà il sabato, le ferie e, prima o poi la pensione!

[Modificato da bigmad3 09/04/2009 00:33]
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