Notizie macro - Crescita e globalizzazione

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dgambera
00giovedì 17 febbraio 2011 17:52
Se facessero in Italia una cosa simile ci sarebbe la rivoluzione

Cameron presenta la riforma del welfare e dichiara ufficialmente conclusa l'era dei sussidi

di Nicol Degli Innocenti 17 febbraio 2011


LONDRA - L'era dei sussidi è finita. Una vita alle spalle dello Stato non sara più possibile: lo ha garantito il premier britannico David Cameron presentando oggi la nuova legge sul Welfare. La riforma avviata dal Governo di coalizione è la più radicale in oltre sessant'anni di Stato sociale e prevede l'eliminazione del complesso sistema di sussidi, rimborsi e benefit a favore di un sussidio unico universale che entrerà in vigore nel 2013.

Lo Stato conta così di risparmiare 5,5 miliardi di sterline nei prossimi quattro anni ma soprattutto, ha detto il premier, "vuole cambiare la cultura". L'obiettivo è modificare la situazione paradossale per cui per oltre 5 milioni di inglesi del tutto dipendenti dai sussidi statali allo stato attuale è più conveniente non lavorare dato che gli aiuti sono più generosi di molti stipendi . "Il sistema dei sussidi ha creato una cultura di dipendenza, - ha detto il premier, - ma non posso credere che ci siano cinque milioni di persone che sono pigre, non hanno voglia di lavorare e non hanno alcun interesse a migliorare le condizioni di vita loro e delle loro famiglie."Secondo il Governo la riforma porterà un milione di persone a "uscire dalla trappola della povertà" e a trovare lavoro, guadagnando almeno 25 sterline alla settimana in più rispetto al sussidio di disoccupazione. Mentre ora alcune famiglie abili nello sfruttare il sistema ricevono decine di migliaia di sterline, il tetto massimo di aiuti statali verrà ridotto a 26mila sterline all'anno per famiglia.

"La cultura della responsabilità si è perduta, - ha detto Cameron. – Lo si vede nel numero di persone che si danno malate quando possono lavorare o nei disoccupati che rifiutano tutte le offerte di impiego." Chi non accetta il lavoro che gli viene offerto rischia di perdere il sussidio di disoccupazione per tre anni. Lo Stato inoltre, ha avvertito il premier, diventerà più efficiente e più rigoroso nei controlli, sia sui lavoratori in permesso malattia che sui disabili e le persone che ricevono sussidi di invalidità per accertarsi che davvero non siano in grado di lavorare. Cambia anche la terminologia: il sussidio di invalidità diventa ora il "contributo all'indipendenza personale".

In seguito alle critiche però il Governo ha fatto marcia indietro sulla proposta di ridurre del 10% i rimborsi per l'affitto per chi è disoccupato da più di un anno. Nelle intenzioni di Cameron la misura sarebbe stata un incentivo ulteriore a cercare lavoro, ma è stata definita ‘crudele' e ‘punitiva'. L'opposizione laburista ha avvertito dell'impatto sociale devastante della riforma del welfare, mentre Brendan Barber, segretario generale del Trades Union Congress, ha commentato che "la disoccupazione di lungo corso non è raddoppiata perchè improvvisamente sono aumentati gli scrocconi che non hanno voglia di lavorare, ma come risultato inevitabile di politiche economiche basate su tagli che distruggono la crescita."

©RIPRODUZIONE RISERVATA

laplace77
00venerdì 18 febbraio 2011 08:35
Re:
dgambera, 17/02/2011 17.52:

Se facessero in Italia una cosa simile ci sarebbe la rivoluzione

Cameron presenta la riforma del welfare e dichiara ufficialmente conclusa l'era dei sussidi

di Nicol Degli Innocenti 17 febbraio 2011


LONDRA - L'era dei sussidi è finita. Una vita alle spalle dello Stato non sara più possibile: lo ha garantito il premier britannico David Cameron presentando oggi la nuova legge sul Welfare. La riforma avviata dal Governo di coalizione è la più radicale in oltre sessant'anni di Stato sociale e prevede l'eliminazione del complesso sistema di sussidi, rimborsi e benefit a favore di un sussidio unico universale che entrerà in vigore nel 2013.

Lo Stato conta così di risparmiare 5,5 miliardi di sterline nei prossimi quattro anni ma soprattutto, ha detto il premier, "vuole cambiare la cultura". L'obiettivo è modificare la situazione paradossale per cui per oltre 5 milioni di inglesi del tutto dipendenti dai sussidi statali allo stato attuale è più conveniente non lavorare dato che gli aiuti sono più generosi di molti stipendi . "Il sistema dei sussidi ha creato una cultura di dipendenza, - ha detto il premier, - ma non posso credere che ci siano cinque milioni di persone che sono pigre, non hanno voglia di lavorare e non hanno alcun interesse a migliorare le condizioni di vita loro e delle loro famiglie."Secondo il Governo la riforma porterà un milione di persone a "uscire dalla trappola della povertà" e a trovare lavoro, guadagnando almeno 25 sterline alla settimana in più rispetto al sussidio di disoccupazione. Mentre ora alcune famiglie abili nello sfruttare il sistema ricevono decine di migliaia di sterline, il tetto massimo di aiuti statali verrà ridotto a 26mila sterline all'anno per famiglia.

"La cultura della responsabilità si è perduta, - ha detto Cameron. – Lo si vede nel numero di persone che si danno malate quando possono lavorare o nei disoccupati che rifiutano tutte le offerte di impiego." Chi non accetta il lavoro che gli viene offerto rischia di perdere il sussidio di disoccupazione per tre anni. Lo Stato inoltre, ha avvertito il premier, diventerà più efficiente e più rigoroso nei controlli, sia sui lavoratori in permesso malattia che sui disabili e le persone che ricevono sussidi di invalidità per accertarsi che davvero non siano in grado di lavorare. Cambia anche la terminologia: il sussidio di invalidità diventa ora il "contributo all'indipendenza personale".

In seguito alle critiche però il Governo ha fatto marcia indietro sulla proposta di ridurre del 10% i rimborsi per l'affitto per chi è disoccupato da più di un anno. Nelle intenzioni di Cameron la misura sarebbe stata un incentivo ulteriore a cercare lavoro, ma è stata definita ‘crudele' e ‘punitiva'. L'opposizione laburista ha avvertito dell'impatto sociale devastante della riforma del welfare, mentre Brendan Barber, segretario generale del Trades Union Congress, ha commentato che "la disoccupazione di lungo corso non è raddoppiata perchè improvvisamente sono aumentati gli scrocconi che non hanno voglia di lavorare, ma come risultato inevitabile di politiche economiche basate su tagli che distruggono la crescita."

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chiedi ai cassaintegrati di alitalia, che per 2/4 anni prendono l'80% dello stipendio e si fanno i lavoretti in nero...

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dgambera
00lunedì 21 febbraio 2011 14:04
Cosa dicevano del PIL tedesco qualche giorno fa?

In Germania il pil crescerà del 2,3% nel 2011. Record per l'indice Ifo sulla fiducia delle imprese

21 febbraio 2011


Indice Ifo record e stime del Pil in rialzo per il 2011. L'indice tedesco Ifo che misura la fiducia delle imprese sulle prospettive economiche ha segnato un nuovo record a febbraio, salendo a quota 111,2 punti dai 110,3 di gennaio. Le attese erano per un rialzo più contenuto, a quota 110,3. L'indice sulle condizioni correnti è salito a 114,7 da 112,8, a sua volta sopra le attese (113), mentre quello sulle aspettative è salito a 107,9 da 107,8 punti del mese precedente e meglio delle previsioni (107,8).

Per Berlino il Pil 2011 salirà del 2,3%
Quest'anno il ministero delle Finanze tedesco stima una continuazione della ripresa dell'economia in Germania. Le stime sulla crescita del Pil, come si legge nel rapporto mensile del ministero, sono pari al 2,3% su base depurata quest'anno e all'1,8% nel 2012. «Gli attuali dati congiunturali indicano un inizio favorevole dell'economia tedesca quest'anno» afferma il bollettino, che individua rischi soprattutto nell'economia esterna. «Un continuo sensibile aumento dei prezzi delle materie prime - osserva il rapporto - frenerebbe ad esempio lo sviluppo dell'economia, mentre vi sono possibilità di sviluppo soprattutto a livello dell'economia interna».

Aumenta la domanda interna e l'export
La domanda interna in Germania fornisce già adesso, oltre all'export, un contributo crescente alla crescita, osserva il bollettino, aggiungendo che «la ripresa ha guadagnato slancio e rende più facile al Governo sostenere la sua politica economica e finanziaria a livello internazionale». A favore della continuazione della ripresa il trend in rialzo degli indicatori industriali, prosegue il rapporto, per il quale le imprese puntano ad aumentare i loro investimenti. «Anche l'edilizia potrebbe trarre vantaggio quest'anno dall'aumento delle capacità», mentre la disoccupazione da inizio anno continua a calare. L'aumento dei prezzi a gennaio, continua il Ministero, è legato soprattutto al rincaro dei prezzi dell'energia e dei prodotti alimentari. Nel rapporto si precisa anche che il 2011 è iniziato positivamente per gli introiti fiscali di Bund e Laender con un gettito fiscale in rialzo del 5,5% il mese scorso verso un anno prima per un totale di 38,01 miliardi di euro.
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dgambera
00lunedì 28 febbraio 2011 15:56
Aspetto impazientemente quanto evidenziato

L'inflazione europea sale al 2,3% a gennaio spinta dai rincari di petrolio ed energia

28 febbraio 2011




Nel mese di gennaio l'inflazione nei Paesi che compongono l'area dell'euro si è attestata al 2,3%. Lo rende noto Eurostat, l'ufficio europeo di statistica, che ha rivisto la sua precedente stima flash del 31 gennaio scorso quando aveva indicato una crescita al 2,4%. In dicembre era stata del 2,2%, superando così la soglia del 2% per la prima volta dal novembre 2008.
Nell'Unione europea invece, sempre in gennaio, l'inflazione è rimasta stabile al 2,7%.

I Paesi che hanno mostrato il tasso annuo più contenuto sono stati l'Irlanda (0,2%) e la Svezia (1,4%), mentre quello più alto è stato registrato in Romania (7,0%), Estonia (5,1%) e Grecia (4,9%). In Italia l'inflazione è stata dell1,9%, così come in Francia, mentre in Germania è stata al 2% e in Spagna è salita al 3% (per quest'ultimo Paese è stato reso noto stamattina dall'Istituto di statistica spagnolo il dato di febbraio, con l'indice che è salito al 3,4%, segnando il ritmo di crescita più forte da ottobre 2008).

Sull'aumento del tasso annuo d'inflazione in eurolandia hanno inciso soprattutto gli aumenti nel settore dei trasporti (5,1%), della casa (4,5%), così come delle bevande alcoliche e del tabacco (3,7%). I combustibili liquidi sono aumentati dello 0,19% e l'elettricità dello 0,11%. Calo invece per l'abbigliamento (-0,6%).

Gli sviluppi sul fronte dell'inflazione - che risentono prevalentemente dei rincari su petrolio e energia - stanno attirando una crescente attenzione perché potrebbero spingere la Banca centrale europea a un orientamento più restrittivo della politica monetaria, che da quasi due anni vede i tassi di interesse fermi al minimo storico dell'1 per cento.

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dgambera
00lunedì 28 febbraio 2011 22:37
Così la rivolta del Maghreb può influenzare le scelte della Bce al bivio tra inflazione e rischi sovrani

di Andrea Franceschi 28 febbraio 2011


Il 2011 si annuncia un anno di scelte difficili per il successore di Jean Claude Trichet alla guida della Bce. Dopo due anni di tassi di interesse ai minimi e forti immissione di liquidità, il mercato si attende una svolta in senso restrittivo. Su quali conseguenze però potrà avere un'eventuale stretta però permane molta incertezza. La tenuta delle banche di Grecia, Irlanda, Spagna e Portogallo, tuttora molto dipendenti dai canali di finanziamento dell'Eurotower, resta un'incognita.

Prezzi oltre i livelli di guardia
Questa situazione, già difficile, è stata poi ancora più complicata dalle rivolte in Nordafrica che, innescando la corsa al rialzo del petrolio, hanno fatto tornare l'inflazione oltre i livelli di guardia. Gli ultimi dati Eurostat parlano di un aumento del 2,3 per cento dei prezzi a gennaio. «L'emergere di tensioni inflazionistiche - ha detto nel suo intervento al Forex il governatore della Banca d'Italia e tra i candidati alla guida della Bce, Mario Draghi - richiede di valutare attentamente i tempi e le modalità di una normalizzazione delle condizioni monetarie, dei tassi di interesse»

Il meccanismo delle aste
«Senza dubbio - commenta Sergio Capaldi, economista di Intesa Sanpaolo - la Bce dovrà prendere delle decisioni difficili nei prossimi mesi. La mia opinione è, che prima di intervenire sui tassi di interesse, l'Eurotower agirà su altri strumenti. Penso soprattutto alle aste "full allotment", canale di rifinanziamento che l'Eurotower ha messo a disposizione negli ultimi due anni per venire incontro alle banche in crisi di liquidità». Attraverso le "full allotment", gli istituti di credito si presentano a Francoforte e possono chiedere quanti fondi desiderano che gli vengono prestati, dietro presentazione di collaterali (cioè titoli usati come garanzia), al tasso di riferimento (attualmente all'1%).

Aste calibrate a tasso variabile
«La Bce - spiega Gianluigi Mandruzzato, economista di Bsi - ha fatto capire che ridurrà gradualmente l'utilizzo di questi canali sostituendoli con aste calibrate a tasso variabile, strumento adottato prima della crisi. Con queste aste è la stessa Eurotower a stimare le esigenze del sistema creditizio, stabilendo quanti fondi immettere sul mercato. Le banche che ne hanno bisogno partecipano a un'asta. È un meccanismo competitivo in cui comunicano quale tasso di interesse sono disposte a pagare per ottenere i fondi».

L'impatto delle rivolte in Nordafrica sull'economia europea
Le tensioni in nord Africa rischiano di condizionare i tempi e i modi di una stretta creditizia della Bce? «A mio parere - risponde Mandruzzato - sarà determinante l'eventuale contraccolpo che i disordini rischiano di avere sulla crescita in Europa, più che l'inflazione sulla scia dei rincari del greggio. Se l'instabilità politica dell'area si riperquoterà sull'economia del Vecchio continente la Bce potrebbe ritardare il rialzo dei tassi, che il mercato si attende tra giugno e settembre, pur in presenza di prezzi in risalita».

La speculazione e i tassi a zero
Ma quali sono le ragioni di questa impennata dei prezzi? Secondo Franco Bruni, professore di economia monetaria internazionale all'università Bocconi di Milano, i rialzi del petrolio, che ora potrebbero spingere la banca centrale a tagliare i tassi, sono un effetto dello stesso livello minimo del costo del denaro. «La situazione dei tassi è diventata insostenibile - spiega Bruni - il mercato è stato inondato di enormi quantità di liquidità che ha alimentato la speculazione. La situazione deve essere normalizzata al più presto rialzando gradualmente i tassi».

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dgambera
00martedì 1 marzo 2011 12:39
L'inflazione di Eurolandia balza al 2,4 per cento. Il Pil dell'Italia, per Bruxelles, crescerà dell'1,1%

1 marzo 2011


Sale, come da attese, l'inflazione a febbraio in Italia: secondo i calcoli provvisori dell'Istat si è attestata al 2,4 per cento, con una crescita dello 0,3% rispetto a gennaio. Si tratta del valore più alto dal novembre 2008, quando era stato toccato un livello più alto (2,7%). Sul dato hanno pesato gli aumenti dei beni alimentari e dei carburanti.

I dettagli sull'inflazione in Italia
In particolare i prezzi degli energetici non regolamentati sono aumentati dell'1,2% su mese e del 14,6% su anno. Sui dodici mesi, la benzina cresce dell'11,8% e il gasolio del 18 per cento. Rispetto al primo mese del 2011, invece, il prezzo della benzina cresce dello 0,8% e il gasolio dell'1,1% sul mese. Il Gpl, poi, è salito del 2% sul mese e del 25% sull'anno, il gasolio da riscaldamento aumenta dell'1,8% sul mese precedente e del 17,2% rispetto a febbraio dell'anno scorso.

Il costo della vita in Eurolandia
Lo scenario dell'Italia si replica in Europa. Secondo la prima stima diffusa oggi da Eurostat, lo scorso febbraio l'indice che misura l'andamento dei prezzi al consumo nei Paesi che hanno adottato la moneta unica è salito a quota 2,4% contro il 2,3% di gennaio. Le stime sull'anno, giocoforza, sono state consistentemente riviste al rialzo. Sulla media del 2011 si attesterà al 2,2 per cento nell'area euro, al di sopra quindi degli obiettivi della Bce- che vuole un caro vita inferiore ma prossimo al 2 per cento nel medio periodo - e a fronte di un più 1,8 per cento indicato nelle precedenti previsioni.

Le stime sulla crescita
Lieve revisione in meglio, da parte della Commissione europea, delle previsioni di crescita economica nell'area euro: quest'anno il Pil dell'Ue a 17 aumenterà dell'1,6 per cento, secondo le stime di interim pubblicate oggi dall'esecutivo comunitario. Nell'edizione precedente, risalente al novembre scorso, la Commissione indicava un pil 2011 in salita dell' 1,5 per cento. Il miglioramento delle prospettive economiche trova riscontri in un quadro globale rafforzato e nel recupero di fiducia tra le imprese, rileva la Commissione. Tuttavia «l'incertezza resta elevata e gli sviluppi tra paesi diseguali».

L'Italia cresce di meno rispetto ai big d'Europa
Crescita del Pil all'1,1% quest'anno in Italia. Per Bruxelles, «la ripresa moderata continua a essere trainata dall'esportazione». Rispetto a Germania, Francia, Olanda e Spagna l'Italia é il solo paese in cui la crescita non migliora rispetto alle stime di novembre. Il governo prevede 1,3%, mentre Silvio Berlusconi ha annunciato venti giorni fa il valore di 1,5% come «stima minima». Un obiettivo quest'ultimo, in realtà, molto difficile da raggiungere.

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Il carry-trade li seppellirà

Signor Trichet, non alzi i tassi

di Pierpaolo Benigno 01 marzo 2011


Il dibattito corrente sulla politica monetaria in Europa è incentrato sull'opportunità di alzare i tassi per rispondere alle spinte inflattive provenienti dai prodotti energetici e alimentari. Il dilemma, anche alla luce dei dati europei di ieri, è capire se si tratta di uno shock permanente, che richiede quindi un rialzo dei tassi, o di uno temporaneo. La Bce non è nuova a errori di valutazione in questa materia. Già nel 2008 alzò i tassi per rispondere alla crescita dei prezzi delle materie prime, confondendo uno shock temporaneo con uno permanente. Errore che portò l'euro sopra 1,60 mettendo in difficoltà l'export e accelerando la discesa verso la recessione.

Oggi ci sono varie argomentazioni per chiudere questo dibattito. Come molti sostengono, l'inflazione da guardare non è quella complessiva bensì quella core, depurata dalle componenti più variabili come, appunto, i prezzi dei prodotti energetici e alimentari. Questa inflazione core è ancora sotto controllo.

Si obietta, però, che si dovrebbe comunque agire per prevenire l'eventuale trasmissione dell'inflazione da materie prime a quella core. Tuttavia, argomentazioni di questo tipo non possono prescindere da considerazioni sullo stato della congiuntura economica. Se l'economia fosse in piena espansione e occupazione, sarebbe il caso di prendersene cura. Ma in una Europa che stenta a crescere, e con tanta disoccupazione, ci sono già numerosi calmieri in atto. Il rialzo dei prezzi del petrolio da solo avrà effetti recessivi su consumi e investimenti. Perché mai peggiorare la situazione alzando i tassi e apprezzando l'euro?

In realtà, questo dibattito non centra il cuore del problema: oggi la Bce è in una trappola della liquidità. Non quella classica, in cui i tassi d'interesse sono prossimi alla zero e non possono essere ulteriormente abbassati. In una trappola diversa, o meglio inversa, dove anche se è possibile alzare i tassi non è proprio opportuno farlo. Ma cosa c'entra la liquidità? Non è tanto l'eccesso di liquidità a creare problemi, quanto l'utilizzo improduttivo della liquidità. Alludiamo proprio agli investimenti in titoli di Stato in pancia al sistema bancario europeo.

Il grado di produttività degli impieghi di liquidità è proprio critico per la stabilità finanziaria di un sistema economico. La remunerazione degli investimenti, siano di una banca o di una famiglia, dovrebbe superare il costo delle passività utilizzate per finanziarli. In generale, le passività sono legate ai tassi d'interesse e quando i tassi salgono in risposta alla crescita economica, il costo delle passività aumenta. Se gli investimenti sono produttivi, anche il loro rendimento cresce con l'economia. I problemi sorgono, invece, quando la liquidità è utilizzata in modo improduttivo dal momento che rendimenti e costi vanno in direzioni opposte. Per coprire queste perdite bisogna aggiungere nuovo capitale, raccogliere altra liquidità o, nell'impossibilità, dichiarare bancarotta. Quando l'inversione di marcia colpisce simultaneamente i bilanci di tanti agenti economici allora si può cadere in una crisi finanziaria sistemica. Inversioni di questo tipo, come abbiamo sperimentato, non sono rare, ma avvengono di solito dopo periodi di forte crescita quando i tassi d'interesse sono relativamente alti.

Il problema dell'Europa è che la trappola della liquidità "all'incontrario" la colpisce nell'uscita dalla recessione e a tassi d'interesse molto bassi. Non è colpa della Bce: la liquidità era necessaria. Gli impieghi sono stati sbagliati. Molte banche e intermediari hanno acquistato titoli di Stato per guadagnare sugli spreads rispetto a una liquidità a costo zero. La crisi dei debiti sovrani ha cambiato le carte in tavola. Buona parte di questi titoli ha perso valore e sconta la possibilità di un default.

A conti fatti ci saranno delle perdite significative per il settore bancario europeo, che ora sono mascherate e non ancora contabilizzate. Un rialzo dei tassi d'interesse non solo accrescerebbe queste perdite, dal momento che il corso dei titoli scenderebbe come naturale, ma aggraverebbe ulteriormente i problemi di sostenibilità dei deficit e debiti pubblici, con effetti moltiplicativi sui premi per il rischio, sul valore di realizzo degli stessi titoli di Stato e sulle future perdite per il settore bancario.

In una trappola del genere, se si vuole chiedere alla Bce di occuparsi dell'inflazione, l'Europa dovrebbe prima chiudere il conto dei debiti pubblici e subito.
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dgambera
00mercoledì 2 marzo 2011 11:58
Shock petrolifero sulla ripresa - Stati Uniti ed Europa di fronte allo spettro della stagflazione

articoli di Walter Riolfi e Vittorio Da Rold 2 marzo 2011


di Walter Riolfi
Curioso come in meno di due anni si sia passati a delineare scenari del tutto divergenti. Nel 2009 era la deflazione, ossia l'immobilità o addirittura un calo dei prezzi, a spaventare i listini azionari e quelli obbligazionari. E allora da più parti si criticava la presunta indifferenza della Fed. Adesso è la prospettiva dell'inflazione a terrorizzare le menti degli economisti, sebbene non ancora i mercati finanziari.

E di nuovo si torna a criticare la Banca centrale americana che con la sua politica monetaria ultra espansiva ha vinto il precedente pericolo, ma ne starebbe creando un altro di segno opposto. Infine si sono pure levati i preoccupati allarmi di chi, come tra gli uomini di Pimco, si prefigura il peggiore degli scenari possibili: la stagflazione, ossia quel pernicioso misto d'inflazione e di una stagnante crescita economica.

In effetti, dopo aver ascoltato le dichiarazioni di Ben Bernanke, presidente della Federal Reserve, si avverte la sensazione che la Banca centrale stia minimizzando se non addirittura sottovalutando i rischi d'inflazione. A Bernanke piace misurare l'inflazione core, ossia quella che esclude i prezzi dell'energia e dei prodotti alimentari. I critici sostengono che nel paniere della Fed entrano solo i beni che non aumentano di prezzo. Perché dovrebbe allarmarsi se la "sua" inflazione sonnecchia sotto l'1%? E, del resto, anche quella complessiva non è affatto allarmante, visto che viaggia all'1,6%.

Non sarebbe allarmante se fosse vera, ribattono gli scettici, osservando come, anche in questo caso, si tenda a sottopesare tutto quello che ha visto i prezzi volare. In un anno il mais è più che raddoppiato, il grano è salito del 64%, il cotone del 194%, il rame del 45%. E il petrolio è passato da 79 $ a New York ai 99 di ieri (114 $ il Brent). Nel complesso l'indice (Crb) che misura un paniere di 32 materie prime è salito di oltre il 30% in 12 mesi. È tornato sopra i livelli del 2006-2007, quando l'economia occidentale correva, però, a ritmi doppi rispetto ad oggi.

Nei paesi più poveri l'aumentato costo delle derrate alimentari è stato una delle cause principali delle rivolte viste in questi giorni. Nei paesi occidentali è quanto meno motivo di una più forte inflazione e, appesantendo i conti delle famiglie, finisce per ridurne anche la capacità di spesa. In condizioni come quelle sperimentate in Europa e soprattutto in Italia negli anni '70 e '80, l'aumento dei prezzi si trasferiva automaticamente in una crescita dei salari e di conseguenza esasperava l'inflazione.

Oggi, con la globalizzazione che costringe a comprimere il costo del lavoro, il tutto si traduce in una riduzione dei consumi, una minore crescita economica e l'ulteriore divario tra una minoranza ricca o benestante e una classe media relativamente più povera. È intuitivo: se, come stimano gli analisti di Bloomberg, il prezzo del greggio dovesse volare a 150 $, una media famiglia americana si troverebbe un aggravio di 2.400 $ all'anno solo per il carburante. Se si aggiungono gli aumentati costi per il riscaldamento, degli altri trasporti, dei prodotti alimentari e in genere della maggior parte dei prodotti finiti, si capisce come la capacità di spesa finisca per essere fortemente ridotta.

Bernanke ha probabilmente ragione per non essere preoccupato, come ancora ieri ha ribadito. Se l'impennata dei prezzi petroliferi e alimentari fosse momentanea, non ci sarebbero grosse conseguenze. Ma se non fosse temporanea e se le rivolte in Nord Africa e Medio Oriente si estendessero ad altri stati più importanti (Iran, Arabia) e la crisi divenisse sistemica, la sua tranquillità rasenterebbe l'incoscienza. Cosa c'entra la Fed americana con il caro petrolio e le derrate alimentari?

C'entra, secondo l'opinione di parecchi economisti che non condividono l'espansiva politica monetaria di Bernanke. Tra questi c'è anche l'italiano Franco Bruni, docente di economia monetaria all'Università Bocconi. C'entra perché l'impennata dei prezzi alimentari «s'è già trasferita in un balzo dei prezzi dei terreni agricoli del 12% nel Mid West, come ricorda il Financial Times di ieri», e l'aumento combinato del greggio e delle altre commodity farà salire oltre modo l'inflazione. C'entra, perché dietro quei rialzi c'è anche la mano della «speculazione internazionale che prospera grazie all'eccesso di liquidità, frutto di politiche monetarie troppo espansive», sostiene Bruni.

È miope guardare solo ai prezzi «core» o, peggio, crearsi «ad arte» dei panieri di beni in modo da sottostimare l'inflazione. «Non solo la Fed dovrebbe preoccuparsi del rialzo dei prezzi alimentari e petroliferi, ma dovrebbe finalmente considerare anche l'inflazione delle attività finanziarie». Con i tassi d'interesse quasi a zero, più che l'economia «si stanno stimolando gli istituti di credito a prendere a prestito soldi dalle banche centrali per operazioni finanziarie di breve respiro».

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Gli Stati Uniti e l'Europa di fronte allo spettro della stagflazione

di Vittorio Da Rold 2 marzo 2011


La storica estensione della democrazia (o di una maggiore apertura politica della società) in Nord Africa ha un costo: di sangue, di vite stroncate, di sofferenze umane e di mancata crescita. Crescita bloccata o frenata anche fuori dai confini dei paesi interessati. Come? Secondo la teoria del caos un battito d'ala di una protesta in Libia può provocare un tornado a migliaia di chilometri di distanza.

Così le rivolte nel Nord Africa che hanno portato (per ora) il petrolio a 100 dollari al barile costeranno alla Ue una bolletta energetica di 375 miliardi con un aumento supplementare di 76 miliardi nel 2011, un valore perfino superiore a quello del 2008, prima che si scatenasse la recessione globale dei subprime. La poco rassicurante previsione arriva dal capo economista dell'Agenzia internazionale per l'energia, Fatih Birol, uno dei maggiori esperti internazionali in materia e va presa con molta attenzione.

Non è più allegra la prospettiva degli Stati Uniti, che nel medesimo scenario dovrebbero spendere 385 miliardi di dollari, 80 miliardi in più sul 2011, sempre secondo i calcoli dell'Aie. Tuttavia il costo indiretto della "democrazia" che avanza in Nord Africa e in Medio Oriente vede l'Ue, nella parte poco rassicurante di risultare «l'anello debole della catena della ripresa globale», precisa Birol.

Eccessi di pessismismo? Non proprio visto che anche Nigel Gault, capo economista statunitense di Ihs Global Insight, ha calcolato che un aumento di 10 dollari al barile del prezzo del greggio ridurrebbe il Pil Usa e dei consumi reali dello 0,2% rispetto ai livelli base e taglierebbe l'occupazione (e le speranze di ri-elezione di Barack Obama) di 120mila unità. Un aumento di 15 dollari al barile del prezzo del Brent, se sostenuta, taglierebbe circa lo 0,3% sul tasso di crescita del 2011 ma se il Brent vola a 130 dollari al barile e il prezzo di benzina tocca i 4 dollari al gallone, allora «il danno alla crescita diventerebbe qualcosa di peggio di un irritante fastidio», conclude Gault. Insomma venti di recessione all'orizzonte se il prezzo del greggio non si ferma.

«La mia regola d'oro è che un aumento del 20% sui prezzi del petrolio rispetto allo scenario di base significa – dice Eric Chaney di Axa - una riduzione dello 0,2% della crescita globale, un po' peggio, lo 0,3%, per l'Unione europea». Se applicassimo la "regola d'oro" di Chaney (norma condivisa in generale dagli economisti) alle previsioni dell'Fmi pubblicate in gennaio dovremmo di nuovo rivedere al ribasso le stime del Fondo (appena riviste al rialzo) che prevedeva una crescita globale al 4,4% nel 2011 e un +4,5% nel 2012, con gli Stati Uniti al 3,0% e 2,7%, e Eurolandia all'1,5% e all'1,7% il prossimo anno. Una "gelata" che per l'Europa soprattutto vorrebbe dire tornare a situazioni di semi-stagnazione se non di recessione.

«Il passaggio da 80 a 100 dollari al barile, con un incremento del 25% porterà – dice Jean-Luc Schneider, vice direttore del dipartimento economico dell'Ocse – a un meno 0,3% della crescita dei paesi Ocse nel 2011». Una limitatura, certo, ma se le cose dovessero peggiorare e le rivolte estendersi dall'Oman all'Arabia saudita allora le cose cambierebbero. «Certi analisti – dice Schneider – hanno addirittura ipotizzato un prezzo del greggio a 200 dollari, ma non mi pare il caso di fare dell'allarmismo». «Sono più preoccupato dei riflessi dell'aumento del greggio sull'inflazione e sulla politica monetaria che a quel punto potrebbe diventare più rigida. La vera minaccia è verso la politica monetaria accomodante che con un aumento dell'inflazione potrebbe invertire la rotta con riflessi negativi sulla crescita» dice l'economista dell'Ocse.

«Ma non dimenticate però – aggiunge Chaney – che il prezzo del petrolio ha un impatto sul Pil molto lieve sul lungo termine. Alla fine, il maggior reddito della vendita del petrolio torna sempre in circolo. È sempre sorprendente che i prezzi del petrolio risultano un elemento positivo per le esportazioni di auto di lusso, per esempio: è un effetto del maggior reddito nei paesi esportatori di petrolio come quelli produttori del Golfo che consente nuove spese». Sarà, ma intanto ci tocca affrontare un nuovo mostro per usare la metafora cara al ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, che ripropone l'immagine dell'uscita dalla crisi come un percorso ad ostacoli di un videogame in cui appaiono e scompaiono mostri che si riteneva di aver abbattuto. Ora è la volta del caro-greggio che frenerà la già anemica crescita. E nessuno (salvo i Verdi) vuole tornare alle domeniche senza auto.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

laplace77
00venerdì 4 marzo 2011 09:47
la cina comun(/consum)ista
e il decoupling e' qua, anzi la', che qua aumenteranno i prezzi...

...abituatevi a consumare meno: meglio la decrescita felice che l'impoverimento percepito...

...con buona pace di "quelli che lo shopping terapeutico"...

[SM=g9128] [SM=g9128] [SM=g9128]


fonte: repubblica

L'INCHIESTA

Svolta del partito consumista cinese
"Compagni, consumare è glorioso"


La Repubblica popolare vara il nuovo piano quinquennale in cui l'imperativo è: felicità e benessere. Ovvero, spendere. Basta nascondere i soldi sotto il materasso, è venuto il momento di fare acquisti
dal nostro corrispondente GIAMPAOLO VISETTI


PECHINO - Compagni, consumare è glorioso. Trent'anni dopo l'ordine di arricchirsi, impartito da Deng Xiaoping dopo la morte di Mao Zedong, la Cina del post-comunismo di mercato si prepara ad assolvere un obbligo nuovo: spendere. I compagni non esistono più e l'appellativo è stato appena abolito anche nella vita pubblica.

I soldi però restano, e in Oriente sono sempre di più: la rivoluzione di Hu Jintao e Wen Jiabao, che tra un anno scenderanno dal trono della Città Proibita, punta a spostarli dalle casse dello Stato a quelle delle famiglie, dal partito all'individuo. I cinesi escono dai capannoni ed entrano negli shopping center. La nazione che sta trainando la fragile ripresa dell'economia mondiale, inaugura un'era nuova: quella in cui i consumi interni dovranno sostituire le esportazioni. Per il pianeta è uno spartiacque e i mercati, assieme alle cancellerie internazionali, seguono con il fiato sospeso i lavori della Conferenza politica consultiva del popolo e dell'Assemblea nazionale del popolo, chiamate a varare il dodicesimo piano quinquennale della repubblica popolare cinese. Significa decidere come usare un terzo della ricchezza globale, un quarto delle risorse naturali della terra e un sesto dei destini dell'umanità.

E anche oggi, archiviata la stagione "dell'armonia", l'ordine del potere è chiaro: xingfu, ossia felicità e benessere. I più anziani ricordano che è lo stesso con cui il Grande Timoniere tempestava le masse negli anni
'60 del Novecento e non è un caso se, per tuffarsi ufficialmente nel futuro, Pechino si rifugia sostanzialmente nel passato. Per la leadership al potere l'obiettivo essenziale non cambia: mantenere la stabilità, che in Cina è un modo per garantire l'autorità indiscutibile del partito.

Dal 2008, inizio della crisi di un'economia occidentale degenerata nella finanza fine a se stessa, anche per la Cina, uscita rafforzata dal crac euroamericano, tutto è cambiato. I leader cinesi hanno capito che affidare la sorte nazionale agli ordini di merci degli stranieri, può segnare il capolinea della più longeva dinastia dell'Impero. Su Pechino, mai forte e decisiva come oggi, grava da mesi il senso di un'urgenza e di una precarietà, come se l'apice del successo segnasse il confine con la sconfitta di un sistema. Le autorità, scosse dallo spettro delle rivoluzioni mediterranee, si rendono conto all'improvviso che per conquistare il mondo hanno in realtà consegnato il Paese nelle sue mani, rendendosi vulnerabili dall'esterno. Strade, aeroporti, treni-missile e grattacieli, frutto dello schiavismo praticato in fabbrica per sostenere l'export, non bastano più. L'uscita dalla crisi, per il resto del mondo, sarà lenta e se l'Occidente non acquista più, tocca all'Oriente trasformarsi nel "Cliente Unico" per tutti.

Alla vigilia della svolta, che dovrà convincere 1,34 miliardi di persone a non nascondere più i soldi sotto il materasso, ma a investirli in quelle che fino a ieri erano definite "depravazioni borghesi", universalmente note come "consumi", è partito così il mantra della propaganda di Stato. La Cina ha ordinato ai suoi funzionari di smetterla di costruire viadotti e sgomberare contadini, per "dare invece gioia alla gente". Il premier Wen Jiabao ha gelato i tremila delegati del parlamento. "La valutazione dei funzionari non sarà più fatta in base al numero di edifici e di progetti, o sulla crescita del Pil delle regioni. Guarderà alla capacità di rendere felice il popolo".

E' una scossa che fa tremare le grandi lobby industriali, i blocchi di potere di regioni con un bilancio triplo rispetto a molti Paesi Ue, la pancia massimalista del partito e le stesse multinazionali della delocalizzazione. Al passo d'addio il presidente Hu Jintao, che passerà alla storia come il tecnocrate più grigio sopravvissuto al crollo del "mondo sovieticus", tenta dunque la rivoluzione capace di riscattarne la memoria.

Le colonne del piano, rese pubbliche da domani ma anticipate dalla stampa governativa, sono tre. Spostare la Cina dalle esportazioni manifatturiere a basso costo ai consumi interni generati dallo sviluppo dei servizi. Aumentare gli stipendi e abbassare le tasse sui redditi medi e bassi. Creare una rete di welfare, a partire da sanità pubblica e previdenza, che consenta alla popolazione di non risparmiare tutta la vita per scongiurare di morire nell'abbandono.

Pechino vive nell'incubo di una rivolta online innescata dall'Occidente e per scongiurarla adotta il profilo del capitalismo che ha combattuto per 62 anni. Le caratteristiche però, come sempre, saranno cinesi. "La nostra missione - ha spiegato Hu Jintao alla scuola centrale del partito - è costruire un sistema di gestione socialista per salvaguardare gli interessi e i diritti della gente, che se saranno ignorati potrebbero arrecare danno alla stabilità sociale".

A poche ore dal varo della più impressionante riforma economica del nostro tempo, destinata a cambiare il volto non solo della Cina, un sondaggio choc ha rivelato che dopo trent'anni di boom solo il 6% dei cinesi si dichiara soddisfatto. Il primo nemico da battere è l'inflazione, che secondo l'87% della popolazione continuerà a crescere anche nel 2011. Nel 2010 è salita del 3,3% e in febbraio ha raggiunto il 4,9%, rispetto al 4% dell'obiettivo 2011. I prezzi alimentari sono schizzati però del 10,3%, la frutta addirittura del 30%. I tentativi della banca centrale di raffreddare il denaro sono sostanzialmente falliti e per la prima volta il governo è stato costretto a rivedere al ribasso il target della crescita.

Nei prossimi cinque anni, per rendere sostenibile il proprio sviluppo, la Cina intende calmare l'economia e crescere ad una media del 7%, rispetto all'8% annunciato per il trascorso quinquennio. Nel 2010 il Pil cinese ha registrato in realtà un più 10,3% e la tendenza a risultati più alti delle attese non cambierà. Il messaggio però è inequivocabile: l'obiettivo dello Stato non è più fare soldi per controllare una vecchia massa proletaria, ma fornire servizi per gestire le attese di una nuova classe media. I capi del partito, nelle fasi di transizione politica e alla vigilia delle riforme economiche, non sono mai stati avari di promesse. Ciò che oggi viene prospettato ai cinesi supera però ogni precedente.

"L'ideologia della felicità" prevede, come d'incanto, lo stop all'inflazione, il taglio delle tasse ai ceti bassi e l'aumento generale degli stipendi. Nel 2011 i salari minimi aumenteranno di un altro 20%, come l'anno scorso, ma con punte del 75% nelle regioni interne. Un operaio passerà da 124 a 146 euro al mese. Nelle città la busta paga media sarà di 2 mila euro all'anno, rispetto ai 600 euro guadagnati nelle zone rurali.

Domani Wen Jiabao annuncerà che le disparità crescenti tra miliardari e miserabili, fonte irreprimibile della rabbia popolare, saranno colmate, come il divario tra metropoli e villaggi, tra costa industriale e interno medievale. Con la lotta alla corruzione pubblica, che sta demolendo il rispetto verso il partito, la grande scommessa cinese è però su assistenza, casa, lavoro, ambiente, agricoltura e istruzione. In cinque anni il peso della sanità a carico del privato scenderà dal 40 al 30%, le pensioni saranno agganciate all'inflazione, diventerà reato non pagare i dipendenti e contadini beneficeranno di contributi inediti per la modernizzazione delle colture.

Per spegnere il rischio di una "bolla immobiliare", inizio della fine trent'anni fa in Giappone, lo Stato non si limiterà a frenare il credito: nel 2011 consegnerà 10 milioni di alloggi popolari, che diventeranno 36 milioni entro il 2015. Gli investimenti in energia pulita, sicurezza alimentare, e taglio delle emissioni nocive (-17% per unità di Pil entro cinque anni, -40% nel 2020) porranno la Cina al primo posto nel mondo, come quelle in hi-tech, ricerca scientifica, cultura e sviluppo delle università. Un Paese con 700 milioni di colletti bianchi ha bisogno di essere creativo e innovativo: Pechino, perseguendo il primato nella scienza, si appresta a non esportare più container di jeans, ma file carichi di brevetti.

Questo affascinante germoglio di Cina del Duemila, estremo nostro appiglio, presenta un'incognita e una controindicazione. La prima consiste nella percentuale di possibilità che le promesse si traducano in fatti. Il governo, esternamente, abusa in autoritarismo monolitico, ma al suo interno è diviso tra fazioni locali e lobby economiche contrapposte, spesso frenate dal conservatorismo nazionalista imposto dalla dipendenza dalle forze armate. Il cambiamento, se risulterà possibile, si rivelerà più lento e difficile di quanto annunciato. Il limite di una Cina costretta a spendere è invece la riduzione dello squilibrio commerciale con l'estero. Regalerà una boccata d'ossigeno ai cambi, sebbene Wen Jiabao abbia confermato che la rivalutazione dello yuan procederà con il freno tirato, ma taglierà i fondi cinesi da investire per salvare i deficit dell'Occidente, a partire da Stati Uniti e Unione europea.

Gli eredi di Mao distribuiscono denaro per seminare l'obbligo della spesa e l'incubo dei debiti, antidoto estremo contro l'alba del dissenso interno e il tramonto dei nemici esterni. Rinunciano però, ancora una volta, a donare ai cinesi dignità, diritti e libertà. E sulla sconnessione tra acquisto e partecipazione che può naufragare l'esperimento secolare del "compagno consumista". Se così sarà, non vedremo cadere solo l'ultima dinastia dell'ultimo Impero.

(04 marzo 2011)
laplace77
00venerdì 4 marzo 2011 16:50
Re: la cina comun(/consum)ista
laplace77, 04/03/2011 9.47:

e il decoupling e' qua, anzi la', che qua aumenteranno i prezzi...

...abituatevi a consumare meno: meglio la decrescita felice che l'impoverimento percepito...

...con buona pace di "quelli che lo shopping terapeutico"...

[SM=g9128] [SM=g9128] [SM=g9128]


fonte: repubblica

L'INCHIESTA

Svolta del partito consumista cinese
"Compagni, consumare è glorioso"


La Repubblica popolare vara il nuovo piano quinquennale in cui l'imperativo è: felicità e benessere. Ovvero, spendere. Basta nascondere i soldi sotto il materasso, è venuto il momento di fare acquisti
dal nostro corrispondente GIAMPAOLO VISETTI


PECHINO - Compagni, consumare è glorioso. Trent'anni dopo l'ordine di arricchirsi, impartito da Deng Xiaoping dopo la morte di Mao Zedong, la Cina del post-comunismo di mercato si prepara ad assolvere un obbligo nuovo: spendere. I compagni non esistono più e l'appellativo è stato appena abolito anche nella vita pubblica.

...

(04 marzo 2011)




il decoupling e' anche di lal-lal-lero-lero-la', ma sempre in BRIC, OCSE invece tira la cinghia, che tanto je fa bene...

15:23 - Auto Brasile: mercato record a febbraio (+24%), Fiat torna leader


+19,5% le immatricolazioni primi due mesi nel Paese

(Il Sole 24 Ore Radiocor) - San Paolo, 04 mar - Fiat torna
leader in Brasile a febbraio con vendite pari a 47.740 auto
su un mercato che registra un record per il mese con una
crescita del 24% delle immatricolazioni rispetto a un anno
prima e del 12% rispetto al mese precedente a 274.153
unita'. Lo comunica l'Associazione nazionale dei costruttori
Anfavea, che spiega la buona performance con l'espansione
dell'economia che sostiene i consumi. Dietro Fiat la
Volkswagen con 45.999 unita' (era prima a gennaio), General
Motors con 39.074 e Ford con 18.339. Nei primi due mesi di
qeust'anno le immatricolazioni in Brasile sono cresciute del
19,5% a 519.026.


confrontate con come va il mercato dell'auto in europa...

[SM=g9128]
laplace77
00lunedì 7 marzo 2011 11:36
scoperte dell'acqua calda...

fonte :il fatto quotidiano


Nuove auto e nuove case, ma il mercato è saturo

È difficile capire come si sia potuto credere e far credere che incentivando la domanda di prodotti che hanno saturato da tempo il mercato si possa far ripartire la crescita economica. In Italia negli anni Sessanta del secolo scorso le automobili circolanti erano 1.800.000. Nel 2008 sono state 35 milioni. Se nei decenni passati il settore aveva grandi possibilità di espansione, oggi non ne ha più. Ha riacquistato un po’ di slancio con gli incentivi alla rottamazione, ma, appena sono finiti, la domanda di nuove immatricolazioni è crollata quasi del 30 per cento da un mese all’altro. A livello mondiale l’eccesso della produzione automobilistica è circa un terzo del totale: 34 milioni di autovetture all’anno su 94 milioni.

La scelta di puntare sul rilancio della produzione automobilistica non solo si è dimostrata fallimentare dal punto di vista economico, ma è anche irresponsabile dal punto di vista energetico e ambientale perché l’autotrasporto (autovetture e camion) assorbe in Italia circa un terzo di tutte le importazioni di fonti fossili. Contribuisce per un terzo alle emissioni di CO2, che sono la causa principale dell’innalzamento della temperatura terrestre.

Negli anni Sessanta del secolo scorso anche il settore dell’edilizia presentava grandi possibilità di espansione, sia perché era necessario completare l’opera della ricostruzione post-bellica, sia perché erano in corso movimenti migratori di carattere biblico dalle campagne alle città, dal sud al nord, dal nord-est al nord-ovest. Ora non è più così. Nel quindicennio intercorrente tra i censimenti agricoli del 1990 e del 2005 sono stati edificati 3 milioni di ettari di terreno: una superficie pari al Lazio e all’Abruzzo. Contestualmente il numero degli edifici inutilizzati è cresciuto. A Roma ci sono 245.000 abitazioni vuote su 1.715.000. Una su sette. A Milano 80.000 appartamenti su 1.640.000 e 900.000 metri cubi di uffici: un volume equivalente a 30 grattacieli Pirelli.

Situazioni analoghe si verificano in tutte le città di tutte le dimensioni. I terreni agricoli adiacenti alle aree urbane sono costellati di capannoni industriali in cui non si è mai svolta la minima attività produttiva. Anche la scelta di puntare sull’edilizia come volano della ripresa economica si è rivelato un errore strategico e contemporaneamente una dimostrazione di irresponsabilità ambientale perché i consumi energetici degli edifici sono superiori a quelli delle automobili. Assorbono altrettanta energia, un terzo del totale, ma solo in cinque mesi per il riscaldamento invernale.
Quindi, come scrive anche Giorgio Cattaneo sul blog Libre, nel caso della riconversione edilizia – di cui l’Italia avrebbe un estremo bisogno, anche per ridurre la propria grave dipendenza energetica – a crescere sarebbe una gran quantità di beni (riscaldamento a minor costo, ambiente più pulito), mentre a rimetterci sarebbe soltanto una merce: il gasolio o il metano da riscaldamento.

Devote alla “teologia del Pil”, dottrina fondata sulla teoria della crescita illimitata dei consumi, economia e politica non osano pronunciare serenamente la parola decrescita, ma basta l’esempio della possibile riconversione edilizia, che in Italia sarebbe una vera e propria rivoluzione, a dimostrare che non siamo di fronte a un ossimoro: proprio la decrescita (del Pil legato allo spreco di energia) potrebbe assicurare una grande ripresa dell’occupazione nel settore, con una straordinaria eredità di lavoro utile e di benessere diffuso.


in merito alla "teologia imperante", evidentemente l'articolista non sa come funziona il discorso "fiat-money"...

laplace77
00martedì 8 marzo 2011 17:58
2010 italia: aumentano i fallimenti

...alla faccia della ripresa...

fonte: repubblica

IMPRESE

Fallimenti, il 2010 replica il boom
in bancarotta 11mila aziende


I dati dell'Osservatorio di Cerved Group. Il fenomeno è cresciuto del 20% sul 2009 (anno in cui già c'era stato un aumento del 25%) ed ha colpito soprattutto il settore industriale a partire dalle costruzioni. Sui tassi di insolvenza il "disastro" lombardo trascina tutto il Nord, la parte più colpita del Paese
di LUCA PAGNI


MILANO - Non si ferma la "strage" di aziende italiane. Anche nel corso del 2010 è continuato a crescere il numero di società che hanno dichiarato fallimento: l'anno scorso sono state 11mila, con un incremento del 20 per cento rispetto al 2009 (che già aveva denunciato un più 25 per cento rispetto alla stagione precedente).

Si tratta del dato più elevato da quando, nel 2006, è stata riformata la disciplina dei fallimenti, così come risulta dai dati forniti dall'Osservatorio crisi d'impresa di Cerved Group. A testimonianza di come la coda della crisi stia colpendo le aziende che hanno provato a reagire, ma che ora si sono dovute arrendere di fronte a una ripresa dei consumi che tarda a venire. Non a caso, a denunciare il maggior numero di fallimenti sono state le società del settore industriale: negli ultimi due anni sono state oltre 5mila le imprese del manifatturiero ad aver alzato bandiera bianca, con un tasso di insolvenza (numero di fallimenti ogni 10mila imprese) pari a 45,2, più del doppio della media di quello complessivo dell'economia italiana nel suo complesso (pari a 20).

Ad aver sofferto maggiormente sono stati i settori dei mezzi di trasporto (tasso di insolvenza pari a 87), gomma e plastica (83), calzaturiero (71) e meccanica (63). Ma è il settore delle costruzioni a brillare in negativo per il secondo anno consecutivo, con un incremento delle procedure di fallimento del 15%.

Così come nel 2009, sono sempre le regioni del Nord a
guidare la classifica delle aziende che hanno dichiarato bancarotta: le procedure sono aumentate del 21,5% nel Nord-ovest, del 20,9% nelle regioni del Centro e del 18,4% nel Nord-est. A preoccupare maggiormente è il livello del tasso di insolvenza nelle regioni settentrionali: è arrivato a 23,8 nel Nord-ovest, soprattutto a causa del peso della Lombardia, la regione con il maggior numero di fallimenti (oltre 4mila negli ultimi due anni).

Fra tanti dati negativi, una piccola finestra che si apre all'ottimismo: nell'ultimo trimestre dell'anno passato si è registrata la prima inversione di tendenza, con una diminuzione delle procedure dell'8,8%. "L'impressione - è il commento dell'amministratore delegato di Cerved group, Gianandrea De Bernardis - è rafforzata dalla più lenta dinamica dei concordati preventivi nel corso dell'anno, visto che il concordato è la fase in cui l'impresa è in uno stadio di crisi più congiunturale e meno avanzato". Ma per trasformarsi in un dato positivo bisognerà attendere almeno i dati dei primi sei mesi del 2011.

(08 marzo 2011)
laplace77
00venerdì 8 aprile 2011 16:51
decoupling tedesco?

se non fosse per il mare di caxxate che hanno fatto comprando i debiti altrui, visto che la bolla immobiliare non ce l'hanno avuta, che si sono adeguati alla sfida competitiva (per questo hanno potuto contare sulle esportazioni, piuttosto che sulla rendita/speculazione mattonara) e che ora riescono a far crescere pure la domanda interna, sembrerebbe proprio un paese serio...

...peccato per il clima...


11:12 - Germania: Pil in crescita al 2,8% nel 2011, secondo gli istituti di ricerca

(Il Sole 24 Ore Radiocor) - Berlino, 07 apr - Il gruppo dei
cinque piu' importanti istituti di ricerca economica, nelle
sue previsioni di primavera, pubblicate giovedi', ha alzato
le sue previsioni per la crescita economica della Germania
al 2,8% quest'anno, dicendo che l'espansione e' sempre piu'
trainata dalla domanda interna. Gli istituti, nella loro
previsione di autunno, avevano ancora previsto un'espansione
del Pil tedesco del 2%. "L'espansione rimarra' forte nei
prossimi mesi", dicono gli istituti nel loro rapporto.
L'espansione dell'economia mondiale continuera' ad aiutare la
crescita tedesca, attraverso l'aumento delle esportazioni,
mentre la ripresa globale sara' sempre piu' guidata da un
passaggio alla domanda interna, dice il rapporto. Per il
2012 gli istituti vedono il prodotto interno lordo del Paese
in espansione del 2%. Le difficolta' nell'offerta di petrolio
e la crisi del debito dell'area dell'euro sono citati come
possibili rischi per lo sviluppo economico. La relazione
semestrale e' stato compilata dai quattro dei principali
istituti di ricerca della Germania, guidati dall'Istituto di
ricerca economica di Halle, o Iwh. Gli altri istituti sono
l'Ifo, con sede a Monaco (Istituto per la ricerca
economica), l'Ifw con base a Kiel (Global Economy Institute)
e il Renania-Westfalia Institute di Essen.



11:20 - Germania: Pil in crescita al 2,8% nel 2011, secondo gli istituti di ricerca -2-

(Il Sole 24 Ore Radiocor) - Berlino, 07 apr - Secondo gli
istituti di ricerca economica il disavanzo della Germania
nel 2011 dovrebbe ammontare all'1,7% del prodotto interno
lordo. Gli istituti sono piu' ottimisti nelle loro previsioni
del governo tedesco, che aspetta ancora nel 2011 una
crescita del 2,3% e un disavanzo di circa 2,5%. Berlino,
pero', deve aggiornare le sue previsioni la prossima
settimana. La Germania, che aveva gia' recuperato dalla crisi
lo scorso anno, con un incremento del 3,6% e un disavanzo
del 3,3%, appena al di sopra della soglia del 3% imposto dal
Patto europeo, non e' sul punto di derogare dalla sua
crescita. Gli istituti prevedono che nel 2012 il deficit
scendera' allo 0,9% del Pil. Gli effetti del disastro in
Giappone, da parte loro, non dovrebbero manifestarsi che a
breve termine, sempre secondo gli istituti.


uber allen!
serafin.
00venerdì 8 aprile 2011 18:33
Re: decoupling tedesco?
laplace77, 08/04/2011 16.51:


se non fosse per il mare di caxxate che hanno fatto comprando i debiti altrui, visto che la bolla immobiliare non ce l'hanno avuta, che si sono adeguati alla sfida competitiva (per questo hanno potuto contare sulle esportazioni, piuttosto che sulla rendita/speculazione mattonara) e che ora riescono a far crescere pure la domanda interna, sembrerebbe proprio un paese serio...

...peccato per il clima...


11:12 - Germania: Pil in crescita al 2,8% nel 2011, secondo gli istituti di ricerca

(Il Sole 24 Ore Radiocor) - Berlino, 07 apr - Il gruppo dei
cinque piu' importanti istituti di ricerca economica, nelle
sue previsioni di primavera, pubblicate giovedi', ha alzato
le sue previsioni per la crescita economica della Germania
al 2,8% quest'anno, dicendo che l'espansione e' sempre piu'
trainata dalla domanda interna. Gli istituti, nella loro
previsione di autunno, avevano ancora previsto un'espansione
del Pil tedesco del 2%. "L'espansione rimarra' forte nei
prossimi mesi", dicono gli istituti nel loro rapporto.
L'espansione dell'economia mondiale continuera' ad aiutare la
crescita tedesca, attraverso l'aumento delle esportazioni,
mentre la ripresa globale sara' sempre piu' guidata da un
passaggio alla domanda interna, dice il rapporto. Per il
2012 gli istituti vedono il prodotto interno lordo del Paese
in espansione del 2%. Le difficolta' nell'offerta di petrolio
e la crisi del debito dell'area dell'euro sono citati come
possibili rischi per lo sviluppo economico. La relazione
semestrale e' stato compilata dai quattro dei principali
istituti di ricerca della Germania, guidati dall'Istituto di
ricerca economica di Halle, o Iwh. Gli altri istituti sono
l'Ifo, con sede a Monaco (Istituto per la ricerca
economica), l'Ifw con base a Kiel (Global Economy Institute)
e il Renania-Westfalia Institute di Essen.



11:20 - Germania: Pil in crescita al 2,8% nel 2011, secondo gli istituti di ricerca -2-

(Il Sole 24 Ore Radiocor) - Berlino, 07 apr - Secondo gli
istituti di ricerca economica il disavanzo della Germania
nel 2011 dovrebbe ammontare all'1,7% del prodotto interno
lordo. Gli istituti sono piu' ottimisti nelle loro previsioni
del governo tedesco, che aspetta ancora nel 2011 una
crescita del 2,3% e un disavanzo di circa 2,5%. Berlino,
pero', deve aggiornare le sue previsioni la prossima
settimana. La Germania, che aveva gia' recuperato dalla crisi
lo scorso anno, con un incremento del 3,6% e un disavanzo
del 3,3%, appena al di sopra della soglia del 3% imposto dal
Patto europeo, non e' sul punto di derogare dalla sua
crescita. Gli istituti prevedono che nel 2012 il deficit
scendera' allo 0,9% del Pil. Gli effetti del disastro in
Giappone, da parte loro, non dovrebbero manifestarsi che a
breve termine, sempre secondo gli istituti.


uber allen!




ja ja Deutschland uber alles [SM=g1749711]

(peccato per la lingua il clima e l'alimentazione)
dgambera
00domenica 10 aprile 2011 17:48
Madrid e Londra capitali dell'austerity europea

all'interno articoli di B. Romano, M. Moussanet, L. Maisano e L. Veronese 10 aprile 2011


Ci sono la virtuosa Germania e la dissoluta Spagna, barcollante dopo l'esplosione della bolla immobiliare, la disorientata Francia e la tremebonda Gran Bretagna che si prepara ai ferri di una drastica riduzione del settore pubblico. Con ricette e mix diversi, i quattro big d'Europa (Italia esclusa) hanno presentato ambiziosi piani per risanare i conti pubblici grazie a manovre che, secondo le elaborazioni del Sole 24 Ore, ammontano a quasi 125 miliardi di euro nel biennio 2010-2011.

Certo, bisogna distinguere tra tagli annunciati e risparmi effettivi, tra buone intenzioni e dura realtà. Non c'è dubbio che a remare più forte debba essere il primo ministro spagnolo José Zapatero che già un anno fa, per sfuggire alla bancarotta, si impegnò a recuperare 50 miliardi in due anni, ovvero cinque punti del Pil, con tagli agli stipendi pubblici, aumenti dell'Iva e delle tasse sui redditi più alti.

Ma anche il premier britannico David Cameron ha promesso tagli più draconiani di Margaret Thatcher, con l'eliminazione di 400mila posti pubblici. Appena un po' più cauto il presidente francese Nicolas Sarkozy, che quest'anno punta comunque sul congelamento della spesa pubblica, tagli aggiuntivi per 7 miliardi e nuove entrate fiscali di circa 10 miliardi. Infine, il cancelliere Angela Merkel, portabandiera del rigore in Europa, cerca di capitalizzare su un'economia dinamica e mira addirittura a contenere il deficit federale allo 0,35% del Pil nel 2016. Obiettivi che dovranno essere attuati con discernimento e saggezza politica per dare un respiro di lungo periodo alla ripresa in Europa e non finire invece per azzopparne sul nascere le potenzialità. (E.Br.)

©RIPRODUZIONE RISERVATA



Berlino già nei limiti del patto di stabilità

Dal nostro corrispondenteBeda Romano 10 aprile 2011


FRANCOFORTE - L'austerità dell'ultimo anno in Germania non si è tradotta come altrove in tagli generalizzati. Non solo il Paese ha potuto godere di una rapida ripresa nel 2010, ma vi è stato il tentativo da parte del Governo di trovare un equilibrio tra aumenti delle tasse, tagli alla spesa e nuovi investimenti. Peraltro, per la prima volta quest'anno, la Finanziaria verrà messa a punto sulla base di indicazioni rigide provenienti dal ministero delle Finanze.

La politica di bilancio in Germania è segnata da due elementi importanti. Il primo è il federalismo tedesco. Il Governo pubblica unicamente i dati federali sui campi d'azione che competono al Bund. Ogni Land ha poi la propria strategia nella gestione delle entrate e delle uscite. L'Ufficio federale di Statistica di Wiesbaden è responsabile di raggruppare le cifre nazionali e regionali e quindi offrire un quadro generale della situazione tedesca.

Il secondo elemento riguarda le nuove norme costituzionali, introdotte nel 2009. Dal 2016 in poi il Governo federale dovrà limitare il proprio deficit allo 0,35% del Prodotto interno lordo. Dal 2020, le regioni dovranno avere un bilancio in pareggio. Il freno all'indebitamento vuole essere una risposta all'invecchiamento della popolazione e ai costi pensionistici in crescita. La legge prevede che un organismo nazionale verifichi i conti regionali passo passo.


Nel marzo scorso il Governo democristiano-liberale del cancelliere Angela Merkel ha presentato un programma quadriennale che prevede una riduzione del deficit a 31,5 miliardi nel 2012, 22,3 miliardi nel 2013, 15,3 miliardi nel 2014 e 13,3 miliardi nel 2015, rispetto a un obiettivo per il 2011 di 48,4 miliardi. La Germania dovrebbe riuscire a ridurre il disavanzo sotto al 3% del Prodotto interno lordo già quest'anno. Secondo il piano dell'anno scorso, le spese federali dovrebbero salire a 305,8 miliardi nel 2011 da 303,6 miliardi del 2010. Calano le uscite per il Welfare (da 163 a 160 miliardi), per l'edilizia famigliare (da 2,11 a 2,09 miliardi), per le imprese (da 16,07 a 15,99 miliardi). Aumentano invece le spese della Difesa (da 31,7 a 32,1 miliardi), della ricerca e dello sviluppo (da 14,89 a 16,93 miliardi) e per l'agricoltura, la gestione delle acque, l'alimentazione (da 5,6 a 6,4 miliardi). Il Governo ha anche ridotto gli stipendi dei funzionari federali (del 2,5%) e deciso uno sfoltimento dei ranghi. Il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble ha introdotto una nuova tassa sui biglietti aerei e una nuova imposta da applicare ai produttori di energia elettrica che posseggono centrali nucleari. Quest'ultimo tassello è oggi in dubbio, almeno per il 2011, vista la decisione di chiudere per tre mesi gli impianti più vecchi del Paese.

Secondo i calcoli degli economisti di Deutsche Bank la manovra quadriennale è composta per il 65% di tagli alla spesa e per il 35% di aumenti delle tasse. Il 2011 è iniziato più facilmente di quanto molti si aspettassero. Il rendiconto per il 2010 ha mostrato entrate più sostanziose del previsto (226,2 miliardi anziché 211,9 miliardi) e uscite minori delle attese (303,6 miliardi, rispetto ai 319,5 miliardi anticipati a suo tempo).
Dal 2012 in poi le uscite federali dovrebbero calare progressivamente: dello 0,67% l'anno prossimo, dello 0,63% nel 2013, dello 0,43% nel 2014 e dell'1,69% nel 2015. Per la prima volta quest'anno il bilancio dello Stato sarà messo a punto con un sistema top-down. Il ministero delle Finanze stabilisce entrate e uscite di ciascun dicastero che poi deciderà come utilizzare le risorse. Anziché guardare alle necessità potenziali, valgono le priorità politiche. «Questo è l'unico modo per assicurarsi che il fabbisogno annuo scenda gradualmente a un massimo dello 0,35% del Pil entro il 2016 - afferma il ministero delle Finanze -. In questo contesto, è logico che il Governo federale metta nero su bianco le sue priorità nelle diverse aree di competenza del bilancio con grande anticipo». In poche parole, il freno al debito sta costringendo la Germania ad avere in politica economica uno sguardo ancor più lungo del normale.

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Parigi non fa sconti ai «fonctionnaires»

Dal nostro corrispondenteMarco Moussanet 10 aprile 2011


PARIGI - Il 2010 è stato l'anno dello "zero volume", il 2011 è l'anno dello "zero valore". Se cioè il bilancio dell'anno scorso è intervenuto sul contenimento della spesa pubblica impedendo ogni voce aggiuntiva, quello di quest'anno la congela, con un risparmio di circa 3 miliardi pari al costo degli aumenti automatici. Sullo sfondo prosegue la misura forse più emblematica decisa nel 2007, al momento dell'elezione, dal presidente Nicolas Sarkozy: la non sostituzione del 50% dei dipendenti pubblici in uscita.

Una decisione, quest'ultima, che non ha un impatto di grande rilievo cui conti dello Stato (circa 450 milioni all'anno) ma è significativa per un Paese che ha sempre incrementato l'esercito, e lo status, dei suoi "fonctionnaires". Il risultato è che tra il 2007 e il 2010 l'amministrazione pubblica ha perso poco meno di 100mila persone. E di altrettante si alleggerirà entro il 2013.


Un impegno che Sarkozy intende mantenere. E a nulla sembrano servire le proteste che arrivano dal mondo della scuola, il più colpito con oltre 45mila posti tagliati tra 2009 e 2011. A salvarsi è soltanto la Giustizia, il cui personale salirà quest'anno di 400 unità. Se queste sono le linee di fondo di una politica di bilancio che Governo ed Eliseo hanno sempre amato definire «rigorosa ma senza inasprimenti fiscali generalizzati e ostacoli allo sviluppo», ci sono poi le operazioni straordinarie. Di ben altra entità.

La più importante, nel 2010, è stata quella del "grande prestito" da 35 miliardi che Sarkozy ha deciso di realizzare per sostenere l'economia e giocare d'anticipo sulla ripresa: una voce che ha appesantito i conti dell'anno scorso, con un deficit previsto a 152 miliardi, l'8,5% del Pil. Un record negativo assoluto, superiore di un punto a quello, già stratosferico, del 2009. In realtà il 2010 si è chiuso molto meglio rispetto allo scenario tracciato dalla Finanziaria. Grazie in particolare al minor deficit degli enti locali (1,7 miliardi rispetto ai 6,2 previsti) e all'aumento delle entrate fiscali sul fronte delle imprese dovuto al miglioramento della situazione economica (oltre 12 miliardi in più), il rapporto deficit-Pil si è fermato al 7%, quando ancora l'aggiornamento d'inizio anno parlava del 7,7 per cento. E anche il debito si è fermato al di sotto del previsto (81,7% del Pil rispetto all'82,9%), sia pure su livelli incredibilmente elevati. Ma intanto si è aperta la sfida del 2011, davvero ambiziosa. Parigi intende portare il deficit a 92 miliardi, pari al 6% del Pil. Per scendere al 4,6% nel 2012 e al 3% nel 2013. In realtà l'operazione sembra meno complicata di quanto continua a dire il Governo ed è quindi possibile che si scenda al di sotto del 6% (il ministro Christine Lagarde ha già annunciato un aggiornamento al 5,7%), ricavando così qualche margine di manovra per l'anno elettorale.

Sul bilancio non peserà più il "grande prestito", ma neppure gli 8,2 miliardi residui del piano di sostegno varato in piena crisi. Il congelamento in valore della spesa pubblica, una prima assoluta nella storia del Paese più statalista al mondo, consentirà di risparmiare poco meno di 3 miliardi. A queste misure si aggiungono tagli nell'ordine dei 7 miliardi e "nuove entrate fiscali" per circa 10 miliardi. Con uno sfoltimento della giungla delle agevolazioni che farà comunque salire al 42,9% la pressione fiscale complessiva. La Finanziaria prevede inoltre per il 2011 una crescita del 2 per cento. Stima prudente, visto che le ultime previsioni dell'Ocse immaginano per Parigi - sia pure in variazione trimestrale annualizzata - un +3,4% nel primo trimestre e un +2,8% nel secondo. Cifre che consentono di guardare alla ripresa 2011 (e alle conseguenti entrate fiscali) con un certo ottimismo. La speranza è che l'approccio virtuoso della Francia ai conti pubblici, complice la crisi, diventi strutturale. E che in un futuro non troppo lontano la porti ad abbassare un prelievo fiscale troppo alto e una spesa pubblica che rappresenta ancora il 56% della ricchezza prodotta

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Cameron più severo anche della Thatcher

Dal nostro corrispondente Leonardo Maisano 10 aprile 2011


LONDRA - Ha impugnato la scure in giugno con il budget d'emergenza; l'ha levata in ottobre con la spending review che programma la spesa pubblica fino al 2015; l'ha abbassata sul capo di un Paese intero il 6 aprile quando, sulla scia del budget del 23 marzo, è scattato il nuovo anno fiscale.

La mannaia del cancelliere dello Scacchiere George Osborne cade in queste ore dando il via alla fase acuta del più clamoroso aggiustamento di bilancio mai avvenuto nella storia moderna del Regno. Nemmeno Margaret Thatcher osò affrontare il cimento in cui si è lanciato il premier David Cameron scatenando il suo Cancelliere a caccia del deficit. Londra piegata dalla crisi del credito solo meno di Islanda e Irlanda, ma peggio di tutti gli altri, America probabilmente compresa, ha un rapporto deficit Pil al 10% e un debito pubblico (quello privato è stellare) al 70% avvitato a una dinamica che promette di lasciar intravvedere le tre cifre prima della fine della legislatura.

A meno che quanto Cameron e Osborne vanno promettendo non riesca a trovare assoluta compiutezza. Nei numeri significa azzerare il deficit strutturale entro il 2015, una correzione globale da 110-120 miliardi di sterline (circa 125-140 miliardi di euro) di cui 81 miliardi di sterline, tre quarti, sul fronte delle spese. Il ministero degli Interni subirà tagli del 25%; quello del Tesoro del 33%; la Difesa l'8%; l'Industria il 7,1%; Sport 30 per cento. Il Welfare nel suo insieme garantirà il 22% del risparmio totale, una volta a regime non meno di 18 miliardi di sterline. L'età pensionabile arriverà a 66 anni per uomini e donne entro il 2020. Il risultato è che almeno 400mila posti di lavoro del settore statale saranno bruciati e toccherà all'impresa privata rimpiazzarli
. Helen Alexander, presidente della Cbi, la Confindustria inglese, in un'intervista al Sole 24 Ore nel dicembre scorso s'era detta certa di riuscire a crearne fino ad un milione. E tanti saranno davvero necessari perché le vibrazioni della forbice andranno a infrangersi soprattutto alla periferia del Regno: Birmingham, Middlesbrough, Newcastle sono tre fra le città più colpite dalla contrazione dei trasferimenti.


Gli assegni per gli enti locali saranno ridotti del 28% in quattro anni e l'autonomia fiscale relativa di cui godranno i comuni compenserà, marginalmente, misure che mediamente significano il 10% di meno per l'assistenza agli anziani, 6,5% ai trasporti, 6,9% alla manutenzione stradale, 5,5% alla raccolta dei rifiuti. «Saranno quattro anni di ristrettezze - ha commentato Tony Travers esperto di enti locali alla London School of Economics - e questo vorrà dire strade più rovinate, marciapiedi più sporchi, anziani e bambini meno assistiti». Sospeso per ora il discusso progetto di riforma del National Health Service. George Osborne ha svelato, invece, nel budget del 23 marzo il lato propositivo della sua azione di risanamento. Ovvero dopo i tagli, il piano per la crescita. Ed è un piano che pone l'impresa privata al centro dello sviluppo. Londra chiede agli imprenditori di supplire, in termini di occupazione, alle conseguenze dei tagli alla spesa pubblica (oggi è il 43,7% del Pil, l'idea è di tornare al 38,7, livello del 2008) che sono stati pianificati. E la mette nelle condizioni di provarci. La riduzione dell'aliquota sulla corporate tax dal 28% di oggi al 23% del 2014 è l'aspetto più macroscopico, ma non il solo. Il nuovo regime fiscale per gli utili delle controllate estere e le 21 aree speciali di sviluppo con marginali vantaggi impositivi, sono altri due esempi. Significativo il caso dell'Irlanda del Nord, prossima ad ottenere un'aliquota corporate del 12,5% uguale, cioè, a quella della Repubblica d'Irlanda.


Una misura decisa per garantire capacità competitiva all'Ulster, rischia di fare scuola se è vero che anche il Galles pensa a qualcosa di simile. La Gran Bretagna è in marcia verso una decisa concorrenza fiscale in ambito Ue? Sembra proprio di sì, scorciatoia per ritornare concorrenziali negli anni in cui si sanguina, si suda, si piange. Con buona pace per le ambizioni di impianto comunitario, ma questa, per l'Inghilterra, è la storia di sempre.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

laplace77
00giovedì 14 aprile 2011 12:50
grecia vs. italia

ok, da noi il tasso "ufficiale" di disoccupazione e' piu' basso (al lordo di cassa integrazione, disoccupati demotivati e lavoro nero), ma per "i giovani" la situazione e' assai simile...

12:36 - Grecia: disoccupazione a gennaio oltre il 15%, vola ai massimi da 5 anni

(Il Sole 24 Ore Radiocor) - Atene, 14 apr - Il tasso di
disoccupazione in Grecia e' stato pari al 15,1% in gennaio
contro l'11,3% di un anno prima. Ha raggiunto cosi' il
livello piu' alto da almeno cinque anni. Lo ha comunicato
giovedi' l'Autorita' delle statistiche greca (Esa). Il tasso
di disoccupazione era del 14,8% nel dicembre 2010 e del
13,9% in novembre. La fascia di eta' 15-24 anni resta la piu'
colpita, con un tasso del 37% contro il 30,4% del gennaio
2010. Le donne, con un tasso del 18,8%, sono maggiormente
interessate degli uomini (12,4%), sempre secondo i dati
dell'Esa. Il numero dei disoccupati in gennaio ha raggiunto
le 756.795 persone. Il numero delle persone in cerca di
lavoro e' aumentato del 33,4% su base annua e del 3,2% nel
dicembre 2010.


...e quando si comincera' a tagliare seriamente anche qui la marea di statali, parastatali, semiassistiti (e dio voglia pure politicanti: "in tutto 1.300.000 italiani che vivono direttamente o indirettamente di politica")...

[SM=g1747522] [SM=g1747522] [SM=g1747522]
serafin.
00giovedì 14 aprile 2011 18:44
Re: grecia vs. italia
laplace77, 14/04/2011 12.50:


ok, da noi il tasso "ufficiale" di disoccupazione e' piu' basso (al lordo di cassa integrazione, disoccupati demotivati e lavoro nero), ma per "i giovani" la situazione e' assai simile...

12:36 - Grecia: disoccupazione a gennaio oltre il 15%, vola ai massimi da 5 anni

(Il Sole 24 Ore Radiocor) - Atene, 14 apr - Il tasso di
disoccupazione in Grecia e' stato pari al 15,1% in gennaio
contro l'11,3% di un anno prima. Ha raggiunto cosi' il
livello piu' alto da almeno cinque anni. Lo ha comunicato
giovedi' l'Autorita' delle statistiche greca (Esa). Il tasso
di disoccupazione era del 14,8% nel dicembre 2010 e del
13,9% in novembre. La fascia di eta' 15-24 anni resta la piu'
colpita, con un tasso del 37% contro il 30,4% del gennaio
2010. Le donne, con un tasso del 18,8%, sono maggiormente
interessate degli uomini (12,4%), sempre secondo i dati
dell'Esa. Il numero dei disoccupati in gennaio ha raggiunto
le 756.795 persone. Il numero delle persone in cerca di
lavoro e' aumentato del 33,4% su base annua e del 3,2% nel
dicembre 2010.


...e quando si comincera' a tagliare seriamente anche qui la marea di statali, parastatali, semiassistiti (e dio voglia pure politicanti: "in tutto 1.300.000 italiani che vivono direttamente o indirettamente di politica")...

[SM=g1747522] [SM=g1747522] [SM=g1747522]




il tracollo dell'Italia Lap [SM=g1748861]

statali parastatali ecc. con il loro stipendio fisso e garantito hanno contributito ad evitare il tracollo

miiiii che paese che siamo ... il portaborse del viceportaborse che porta le borse del lustrascarpe del portaborse

ma na cosa ... gli statali non possono essere licenziati per legge o sbaglio ?
laplace77
00lunedì 2 maggio 2011 13:35
voglio un piano quinquennale, la stabilita' (cit.)

...e se un piano quinquennale vi pare troppo, almeno uno straccio di "piano strategico per l'energia" sarebbe piuttosto opportuno, visto che, a oggi, buona parte dell'energia elettrica in italia si fa col gas (russo, libico e algerino)...

fonte: petrolio

Sabato 30 Aprile 2011, 11:02

Cina: 220 mila stazioni di ricarica per veicoli elettrici.



Entro il dicembre 2015, la Cina avrà 500 mila veicoli elettrici in circolazione, tra scooter, biciclette ed automobili. Per questo, nell'ultimo Piano Quinquennale, sono in progetto 220 mila nuove stazioni di ricarica per i veicoli elettrici, e 2300 stazioni di cambio batterie. Lo scopo è quello di ridurre l'uso di benzina e gasolio per i trasporti, e di ridurre anche la percentuale di elettricità prodotta dal carbone, di cui la Cina fa largo uso. L'obiettivo finale è diventare il leader mondiale nell'uso di energie alternative.

Chissà cosa direbbe Franco Battaglia alla TV cinese.


[SM=g7574] [SM=g7574] [SM=g7574]
m_sox
00venerdì 6 maggio 2011 00:50
Trichet spiazza i mercati (e gli speculatori). Petrolio e materie prime in caduta libera
di Andrea Franceschi, 5 maggio 2011

link
[...]
A mettere sotto pressione le quotazioni delle materie prime sono una serie di dati macro americani che confermano la fragilità della ripresa negli Stati Uniti.
[...]
Trichet ha spiazzato gli operatori facendo capire, in conferenza stampa, che un rialzo dei tassi al direttivo Bce di giugno è tutt'altro che scontato.
[...]
se l'Eurotower non aumenta il costo del denaro diviene meno conveniente indebitarsi in dollari per speculare sulle materie prime. Lo stesso vale se si vuole cambiare dollari in altre monete che, ora, non offrono più una prospettiva certa di tassi di interesse in costante aumento rispetto a quelli offerti sul biglietto verde. Così si smontano le posizioni speculative che vengono alimentate dalla grande disponibilità di dollari a costo quasi zero
[...]


laplace77
00venerdì 13 maggio 2011 13:15
ci sono piiigs e piiigs...

...quelli che "a babbo morto" vivevano sopra i loro mezzi (GR, PT) e quelli "sepolti dal mattone"...

11:07 - Spagna: accelera crescita Pil nel primo trimestre allo 0,3% -2-

(Il Sole 24 Ore Radiocor) - Madrid, 13 mag - Il tasso di
crescita economica della Spagna si e' rafforzato leggermente
nel primo trimestre grazie alle forti esportazioni, ma
rimane uno dei piu' lenti nella zona euro e del mondo, come
mostrano i dati diffusi dall'Ine. Su base annua nel primo
trimestre il Pil e' cresciuto dello 0,8%. Questi numeri
dimostrano che la Spagna, come l'Irlanda e, a differenza di
altre economie deboli della zona euro come la Grecia e il
Portogallo, vive una crescita povera, anche perche' alle
prese con il crollo di un boom edilizio decennale che ha
pesato sulla produzione economica, ha alzato la
disoccupazione a livelli vertiginosi e ha creato un grosso
buco nei conti del settore pubblico.
"La modesta performance
del primo trimestre suggerisce che la Spagna sta lottando
per stabilire un percorso di recupero piu' convincente nel
2011. A parte le esportazioni, l'economia stenta a trovare
qualsiasi altro contributo dinamico alla crescita", ha detto
Raj Badiani, economista della Ihs Global Insight.


[SM=g7574]
laplace77
00martedì 17 maggio 2011 11:25
no perche' i PIIIGs sono in EU...

...e invece gli USA fischiano...

11:57 - Usa: deficit di bilancio record nel 2011 (Nabe), ma meno del previsto

(Il Sole 24 Ore Radiocor) - Washington, 16 mag - Il
disavanzo di bilancio degli Stati Uniti raggiungera' un
record nel 2011, come previsto dal governo, ma dovrebbe
essere molto inferiore a quanto annunciato, secondo una
stima pubblicata lunedi' dall'Associazione Nazionale per
Economia d'impresa (Nabe). Secondo la previsione media di 41
intervistati dalla Nabe, il deficit del governo federale
dovrebbe raggiungere i 1.435 miliardi di dollari per il
corrente anno fiscale, che termina il 30 settembre, il 10,9%
in piu' rispetto al 2010 e un po' di piu' rispetto al record
del 2009 (1.416 miliardi).


come dicevo sugli EuroBond, che sarebbero l'equivalente di questo tipo di debito usa (quello federale), ma anche li' hanno gli stati, e i relativi debiti, chiedete in california...

[SM=g9128]
laplace77
00domenica 12 giugno 2011 13:37
la corea ci sorpassa sul PIL manifatturiero

10:51 - *** Industria: CsC, sorpasso di Corea e India sull'Italia nel manifatturiero

Tra 2007 e 2010 nostro contributo sceso dal 4,5 al 3,4%

(Il Sole 24 Ore Radiocor) - Roma, 9 nov - Tra il 2007 e il
2010 l'Italia e' scesa dal 4,5% al 3,4% nella produzione
manifatturiera globale. E' passata dal quinto al settimo
posto, superata da Corea del Sud e India
, che si piazzano,
rispettivamente, al sesto e al quinto posto. La Cina e' al
primo posto. Crisi e recessione hanno lasciato "segni
profondi" nei settori industriali, rileva il Centro Studi di
Confindustria che ha presentato oggi "Scenari industriali:
effetti della crisi, materie prime e rilancio
manifatturiero. Le strategie di sviluppo delle imprese
italiane".
L'industria, spiega il direttore del CsC Luca Paolazzi, "e'
rimasta schiacciata tra recessione violenta e ripresa lenta"
e "la produzione industriale italiana - si legge nel
rapporto - e' quasi ferma ai livelli dell'estate 2010 (+0,1%
la crescita media mensile da luglio 2010 a marzo 2011) e
dista dal massimo pre-crisi ancora molto (-17,5%), avendo
recuperato l'11,8% dal marzo 2009". La "ripresa lenta e'
quasi tutta dovuta alla domanda estera", inoltre fino a
marzo 2011 "nessun settore aveva colmato le perdite
accumulate". Secondo Paolazzi, "non cresciamo e non siamo
competitivi", pesano "tasse alte, tempi lunghi della
giustizia, pubblica amministrazione che non risponde,
infrastrutture e ricerca insufficienti" ma "le aziende che
hanno cambiato strategia ce l'hanno fatta".



11:08 - Industria: CsC, sorpasso di Corea e India sull'Italia nel manifatturiero -2-

(Il Sole 24 Ore Radiocor) - Roma, 09 giu - La crisi, secondo
il CsC, "ha cambiato la mappa planetaria dell'industria
manifatturiera". Tra il 2007 e il 2010 i "Paesi emergenti
asiatici hanno conquistato 8,9 punti percentuali e sono
saliti al 29,7% sul valore della produzione industriale
mondiale.
La sola Cina e' al 21,7% (+7,6%) ed e' ora
saldamente prima". L'Italia ha "perso colpi" nella
produzione. Il dopo crisi vede una "ripresa sprint della
Germania", che ha accumulato una caduta della produzione del
23,5%; ma a marzo 2011 la distanza dal picco e' -4,2%. In
Italia la produzione mostra un "recupero difficile per molti
settori", dall'alimentare al legno, ai prodotti
farmaceutici, al tessile, al manifatturiero, ai mobili. Fare
industria in Italia, secondo il Centro studi di
Confindustria, "e' meno redditizio", il recupero del margine
operativo lordo e' "solo parziale", ma: "Senza industria
niente Pil" perche' il manifatturiero "e' il principale motore
della crescita economica" e senza "l'economia italiana
imploderebbe".
Diversificazione produttiva, ampliamento del
numero dei mercati e aumento della quota all'interno dello
stesso mercato sono le vie della crescita.



l'india vabbe', ma in corea pare che i salari siano un tantino piu' alti che qua...

...se lo ricordino i signori di confindustria, quelli che senza sovvenzioni statali (e/o finanziamenti bancari) non tirano fuori una lira di investimenti, ma sono sempre pronti a parlare di riduzione del costo del lavoro...

[SM=g1752723]
laplace77
00domenica 12 giugno 2011 13:48
ma come fanno i germanai...


11:49 - Germania: Bundesbank alza stime crescita al 3,1% nel 2011

(Il Sole 24 Ore Radiocor) - Francoforte, 10 giu - La
Bundesbank ha alzato oggi le sue previsioni di crescita
economica per la Germania, avvertendo pero' che lo stato
debole delle finanze pubbliche in numerosi Paesi
industrializzati comporta rischi al ribasso per le
prospettive, attualmente rosee. "La ripresa dell'economia
tedesca e' evoluta in una ripresa su larga scala" e le
prospettive per "un lungo periodo di espansione" sono in
aumento, ha detto la banca centrale in un comunicato stampa.
Il prodotto interno lordo tedesco salira' del 3,1% nel 2011 e
dell'1,8% nel 2012, un dato che segna una significativa
revisione al rialzo rispetto alle previsioni pubblicate nel
dicembre 2010, quando la Bundesbank aveva previsto un
aumento del 2,0% del Pil quest'anno e dell'1,5% nel 2012.
"Le aziende stanno assumendo nuovo personale e acquistando
nuove attrezzature in vista di un ulteriore ampliamento
della loro attivita'", ha detto la banca centrale, rilevando
che la disoccupazione tedesca sara' "nettamente inferiore ai
3 milioni di persone nel 2012".


[SM=g9128]
iandy73
00lunedì 13 giugno 2011 15:46
vignetta simpaticissima nella sua realta'

SI AVVICINA LA PROSSIMA CRISI




[SM=g7576]
(sylvestro)
00lunedì 13 giugno 2011 16:47
Re:
iandy73, 13/06/2011 15.46:

vignetta simpaticissima nella sua realta'

SI AVVICINA LA PROSSIMA CRISI




[SM=g7576]




[SM=g1749711] [SM=g7576]
(sylvestro)
00giovedì 23 giugno 2011 16:57
Petrolio, scivola sotto 90 dollari (-5%)

quotato 89,75 dollari al barile a New York
dgambera
00domenica 26 giugno 2011 19:43
La Bri avverte i governi mondiali: occorre tagliare il debito per evitare «il prossimo grande shock»

dal nostro inviato Riccardo Sorrentino 26 giugno 2011


BASILEA - Bisogna essere preparati. Per «opporsi al prossimo grande shock quando inevitabilmente arriverà», per agire «prima che il disastro colpisca ancora». No, non è una previsione né uno scenario quello offerto dal rapporto annuale della Banca dei regolamenti internazionali, pubblicato oggi. Per fortuna. Perché l'organizzazione internazionale di Basilea fu l'unica a capire, prima del 2007, quali rischi si stavano accumulando nel mondo.

È solo un avvertimento: viviamo in un mondo ancora pieno di squilibri, alcuni dei quali generati dalle stesse politiche adottate negli ultimi mesi per evitare il peggio; e non è l'ora di autocompiacersi dei risultati perché «l'economia mondiale l'anno scorso ha continuato a migliorare». Troppe sono le cose ancora da fare.

Il rapporto - nel suo consueto stile, diretto e franco, che lo rende insieme al suo realismo unico nel panorama dei grandi documenti sull'economia globale - si riferisce senza sorprese alla possibilità di una crisi fiscale. Parla di Grecia, Irlanda, o Portogallo? Nulla di tutto questo: quelle crisi «potrebbero impallidire di fronte alle devastazioni che scaturirebbero dalla perdita della fiducia degli investitori nel debito sovrano di una grande economia».

La Bri, dunque, guarda oltre i Pigs, che giustamente occupano le attuali cronache finanziarie. Il problema è sempre lo stesso: troppi debiti. E i debiti, privati o pubblici, si riducono con il rimborso (e quindi il risparmio), il default, la crescita economica e l'inflazione. Di quest'ultima si intravvedono i segnali, ma non sono ancora davvero allarmanti, se non in prospettiva. La Bri richiama però ancora una volta, come sempre negli ultimi anni, sull'effetto dell'enorme liquidità in circolazione sui prezzi degli assets, comprese - ora le cose diventano più chiare anche nelle analisi rigorose - le materie prime.

Il rischio, allora, è quello del collasso, che va affrontato con decisione puntando sulla crescita. Sui problemi fiscali, allora, «l'Europa deve finire il lavoro, una volta per tutte», spiega il rapporto chiedendo misure di lungo periodo. «O si gode della fiducia dei mercati o no - ricorda ancora, su un piano più generale - e quindi una perdita di fiducia sulla volontà e sulla capacità di uno stato di ripagare il proprio debito è caratterizzato più facilmente da bruschi cambiamenti che da una graduale evoluzione».

I governi devono agire e subito, quindi, nella consapevolezza che «tornare semplicemente alla politica fiscale precedente la crisi non sarà sufficiente» e senza troppe preoccupazioni, ora che c'è la ripresa, di soffocare la crescita: «Il rischio più grande è di fare "troppo poco troppo tardi", non quello di "fare troppo troppo presto"». In questo senso le banche centrali devono evitare di dare la sensazione di monetizzare il debito, ed evitare l'illusione di far tornare crescita e occupazione ai livelli precedenti la crisi.

La Bri pensa che molte analisi sull'output gap, in pratica la crescita che la politica monetaria può ancora stimolare, sia più piccolo di quanto si pensi, forse vicino allo zero. Non si può pensare ancora a sistemi economici - come quelli di inizio secolo - profondamente squilibrati a favore del settore delle costruzioni, che chiede posti di lavoro non specializzati e spiazza altri investimenti più produttivi, e di quello finanziario, sviluppato al punto da trasformarsi da motore della crescita a idrovora di risorse a svantaggio di altre attività economiche.

È un cambiamento strutturale delle economie quello che la Bri chiede, alla quale possono contribuire anche le politiche economiche tradizionali: per esempio riducendo sussidi ad aziende in declino per finanziare attività di formazione dei lavoratori; oppure azzerando gli incentivi ancora esistenti - la deducibilità degli interessi - all'indebitamento.

La fortuna è che gli obiettivi da raggiungere non sono in conflitto: il rialzo dei tassi contiene insieme la domanda domestica in eccesso e gli incentivi ad assumere rischi, mentre una politica monetaria troppo espansiva peggiora entrambi gli squilibri; il rigore fiscale riduce insieme i deficit e i rischi sulla sostenibilità del credito. Una maggiore flessibilità nei cambi, infine, frena insieme le pressioni inflazionistiche dei paesi emergenti e gli squilibri commerciali.

Lo sguardo della Bri è infatti mondiale, e l'invito è sempre quello di guardare alle conseguenze globali delle politiche domestiche, in realtà raramente prese in considerazione. Gli squilibri globali sono infatti maggiori di quelli che si crede: l'attenzione è sempre riservata ai flussi finanziari netti, per esempio ai risparmi cinesi che si dirigono verso gli Usa, l'altra faccia del suo surplus commerciale. Sono i flussi lordi, invece, e quindi bilaterali che sono rilevanti per i rischi che creano alla stabilità finanziaria e che vanno frenati. Non però con i controlli di capitale, che sono una misura straordinaria in grado di creare maggiori squilibri nel lungo periodo.

La stabilità finanziaria, alla fine, è l'obiettivo principale. Il lavoro per assicurarlo sta andando avanti, spiega la Bri ricordando Basilea 3 e il lavoro del Financial stability forum, ma non è finito. Occorrono ancora riforme per «rendere compatibili le regole sugli incentivi: fare in modo cioè di garantire che i manager delle istituzioni finanziarie considerino loro interesse agire in modo da ridurre i rischi di un collasso sistemico». E così come l'anno scorso la Bri spiegò che le istituzioni finanziarie "troppo grandi per fallire" sono "troppo grandi per esistere", quest'anno l'attenzione si dirige sulle istituzioni sistemicamente importanti, che devono diventare sempre meno rilevanti, e sullo shadow banking.

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Bri: le banche centrali alzino i tassi. «L'Italia ha un debito elevato ma un basso deficit strutturale»

21 giugno 2011


Le banche centrali dovranno prepararsi ad aumentare i tassi ufficiali a un ritmo più rapido di quanto avvenuto in passato. Questa la raccomandazione della Bri nel suo rapporto annuale, secondo cui in alcune economie avanzate l'inasprimento «deve essere soppesata alla luce delle vulnerabilità create dal protratto aggiustamento dei bilanci del settore privato e pubblico, e dalla persistente fragilità del settore finanziario».

Lasciarli bassi per molto tempo però, avvisa la Bri, rischia di causare serie distorsioni finanziarie, un'errata allocazione delle risorse e ritardi nella necessaria riduzione dei livelli di debito nei Paesi avanzati più colpiti dalla crisi. Per questi Paesi, rileva il rapporto, «pur essendo cambiato il contesto economico», le sfide a carico delle banche centrali sono simili a quelle vissute negli anni '70 quando si innescò una spirale di aumenti dell'inflazione e del costo del lavoro, che si rafforzarono vicendevolmente assieme ad alti tassi di disoccupazione.

L'Italia resta tra i paesi avanzati con i maggiori livelli di debito rispetto all'economia, ma a riflesso del generale deterioramento dei conti innescato dalla crisi globale ora risulta decisamente meno isolata su questo versante.

E intanto, secondo alcune tabelle pubblicate dalla Banca dei regolamenti internazionali nel suo ultimo rapporto annuale, il bel paese può vantare uno dei deficit di bilancio strutturali più bassi: inferiore al 3 per cento del Pil sul 2010, perfino più basso di quello della Germania, che invece tocca esattamente il 3 per cento secondo le rielaborazioni della Bri di alcuni dati Ocse.

Il deficit di bilancio totale dell'Italia (quello che conta ai fini Maastricht), ad oltre il 4,5 per cento del Pil sul 2010 resta comunque superiore a quello della Germania; ma questo appunto a causa dei fattori ciclici che hanno contribuito al disavanzo. Il deficit strutturale italiano è il più basso tra quelli elencati un in grafico, mentre il più elevato, quasi il 9 per cento del Pil è quello degli Usa, seguiti dalla Gran Bretagna, un deficit strutturale a quasi l'8 per cento del Pil, del Giappone, oltre il 6 per cento, e poi Francia, Canada, Germania e Italia.

In un'altra tabella, sempre citando dati Ocse, la Bri elenca i rapporti debito-Pil dei maggiori paesi avanzati e le previsioni di questa voce anche sul 2012. Da anni in Italia ha superato il 100 per cento ma se nel 2002 erano solo 4 i paesi a superare questa soglia (Italia, Belgio, Grecia e Giappone) nel 2012 avranno raggiunto quota 8 (ai suddetti si aggiungono Usa, Francia, Portogallo e Irlanda). Ad ogni modo anche il debito-Pil italiano esce peggiorato da questa crisi, dal 112,8 per cento del 2007 toccherà il 129 per cento quest'anno, secondo la Bri, per poi attenuarsi al 128,4 per cento nel 2012. Il valore più elevato resta quello del Giappone, con un debito pil al 218,7 per cento atteso sul 2012.

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dgambera
00domenica 26 giugno 2011 22:32
Il Nord Irlanda vive gli scontri più duri da dieci anni: con la recessione tornano gli anni bui dei «troubles»

di Giampaolo Musumeci 25 giugno 2011


I peggiori scontri da dieci anni a questa parte. Non solo per il grave bilancio (decine di feriti, tra cui un fotografo colpito da un'arma da fuoco alle gambe), ma per l'alto numero di persone coinvolte: centinaia, secondo la Bbc addirittura tra le sei e le settecento, in due notti di scontri furiosi. La settimana scorsa, nella capitale nordirlandese, ha ripreso corpo uno spettro del passato.

A Belfast si teme un ritorno agli anni bui dei "troubles", quelli che si chiusero nel 1998 con il Good Friday Agreement e che mise fine alla guerra fra i gruppi paramilitari nazionalisti e unionisti. Ai feroci scontri fra cattolici e i protestanti. E fra i nazionalisti dell'Ira e l'esercito e la RUC, ora PSNI, la polizia nordirlandese. Due i focolai accesi finora: Newtownards Road e Short Strand. Qui elementi dell'Ulster Volonteers Force (UVF), formazione paramiliare lealista in passato opposta all'Ira, si sono scontrati anche con la polizia. La tensione è fortissima soprattutto a Short-Strand, nord di Belfast, un quartiere abitato da circa cinquemila cattolici e "circondato" da 80mila lealisti.

Quando alcune centinaia di lealisti, la notte del 21 giugno hanno dato l'assalto alle case dei cattolici con sassi e molotov, membri dei gruppi paramilitari repubblicani hanno risposto all'assalto. E avrebbero esploso colpi di arma da fuoco. Facendo tre feriti, tra cui il fotografo. Poi, l'intervento della polizia per dividere i due schieramenti. Con i "plastic gun", i fucili che sparano i proiettili di gomma, e i cannoni ad acqua.
Nelle notti successive, i due schieramenti si sono fronteggiati ma senza venire a contatto. Imponente lo schieramento delle forze dell'ordine e dello Sinn Féin. Quello stesso Sinn Féin di Gerry Adams, ex duro e puro della lotta repubblicana, che ora siede in Parlamento e schiera i suoi steward per evitare il contatto tra le centinaia di giovani "streetfighters" (manifestanti armati) di ambo le parti.

Per ora la tregua regge. Intanto però i dirigenti della polizia lanciano l'allarme e affermano senza mezzi termini che la violenza potrebbe raggiungere livelli fuori controllo. Così, la politica si muove. Nelson Mccausland, ministro per lo sviluppo sociale, invita alla calma le due comunità. Parla di misure a breve termine come le "peaceline" i muri che dividono i quartieri cattolici da quelli protestanti della città (quando è possibile) ma parla anche di misure a lungo termine, cioè il dialogo e un processo di pace che, per sua stessa ammissione, richiederà molto molto tempo.

Ma si sa che i gruppi militari dei due schieramenti sono di solito piuttosto refrattari alle dichiarazioni politiche e ai buoni intenti del governo nordirlandese di Stormont. Ma perché questo rigurgito di violenza da parte dei lealisti dell'UVF? La stagione estiva delle marce da sempre accende gli animi e fa riscoppiare gli scontri settari. Ma stavolta lo schieramento degli UVF nella guerriglia urbana desta particolare preoccupazione: proprio UVF due anni fa annunciò di aver completato la dismissione del suo potente armamento.

E allora questa improvvisa esibizione di muscoli sembra un modo per affermare la propria valenza politica in un momento delicato come questo. Sono tre anni che Real e Continuity Ira, eredi del vecchio esercito repubblicano, mai firmatari del Good Friday Agreement rifiutano di deporre le armi e anzi compiono attacchi. Rubando così, anche politicamente, i riflettori. La commissione che si occupa dell'organizzazione delle parate orangiste ha acceso gli animi dei gruppi paramilitari lealisti, dopo che aveva imposto alcuni divieti al passaggio in alcune zone in varie città delle Sei Contee. Un affronto per la comunità unionista, una forma di discriminazione culturale. Una comunità che sottolinea ogni anno, durante la stagione delle parate, l'appartenenza Nord dell'Irlanda al Regno Unito.

Le parate stesse sono a oggi invece uno schiaffo per le comunità cattoliche/nazionaliste di Belfast. La sera del 12 luglio, nei quartieri unionisti si bruciano enormi bonfire, gigantesche pire, con immagini del Papa e di Bobby Sands, con i tricolori irlandesi. Ma guai a ridurre il tutto a scontri di religione (cattolici/protestanti), perché sempre meno è questa la miccia delle violenze. Guai anche a sottovalutare la generale condizione socio economica delle Sei Contee. Siamo in un paese in cui non esiste un'identità nazionale. Qui ci si sente britannici o irlandesi. Nessuno per strada ti dirà io sono nordirlandese. La nazionale di calcio è poco seguita, i gagliardetti northern irish sono lì, nei negozi di souvenir, invenduti quasi anche ai turisti. L'inno nazionale non lo canta nessuno. I giocatori di rugby militano nella nazionale irlandese (unico esempio di riunificazione dell'isola). Insomma, non c'è un senso di nazionalità e un'orgogliosa identità pari a quella degli scozzesi o dei gallesi.

In più, la disoccupazione in alcune zone di Belfast raggiunge livelli allarmanti. La working class cattolica (ma anche protestante in verità) soffre la violenta recessione. Gli attacchi settari e le discriminazioni verso i cattolici avvengono tutto l'anno. E poi riesplodono, irrimediabilmente, in estate. E questa, si teme, sarà per le Sei Contee un'estate calda.

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dgambera
00martedì 28 giugno 2011 00:16
Italia: in arrivo downgrade da Fitch?

di: WSI Pubblicato il 27 giugno 2011| Ora 15:50


Roma - L'agenzia di rating Fitch potrebbe procedere a una revisione al ribasso del rating sul debito sovrano italiano. E' quanto si apprende da ING, secondo un articolo del Wall Street Journal. Al momento si tratta soltanto di indiscrezioni: indiscrezioni che arrivano pur tuttavia in una fase piuttosto delicata per il nostro paese.

Intanto il CDS Italia ha toccato negli ultimi minuti il nuovo massimo degli ultimi mesi, un chiaro segno del disagio che regna tra gli investitori internazionali sul debito sovrano del nostro paese. Pesano sulle quotazioni del CDS le polemiche all'interno del governo: il sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto ha definito "da psichiatra" la manovra fiscale proposta dal collega di partito e ministro dell'Economia Giulio Tremonti, polemiche che minano la credibilita' del nostro paese sui mercati.

La stessa caduta verticale che ha colpito Piazza Affari lo scorso venerdì è stata alimentata infatti da voci che parlavano di un imminente arrivo di un downgrade sul debito Italia. Una mossa che non cadrebbe neanche dal cielo visto che dagli inizi del mese Moody's continua a tartassare l'Italia con giudizi negativi.

L'agenzia di rating, infatti, lo scorso 17 giugno ha comunicato di aver posto sotto osservazione per un possibile downgrade il rating dei bond governativi italiani denominati in euro e valuta estera, attualmente al livello "Aa2".

Dopo pochi giorni, sempre Moody's ha messo sotto osservazione, anche il rating di regioni, province e citta'. Infine, il 23 giugno, la decisione di mettere in creditwatch anche 16 banche italiane .

Ora, a parlare dell'eventualità di un downgrade di Fitch è stato, secondo quanto riportato dal Wall Street Journal, Padhraic Garvey, strategist di ING. Fitch, ha affermato l'esperto, "potrebbe essere la prossima (agenzia) a sferrare un pugno contro l'Italia", e potrebbe decidere anche "di agire direttamente con un downgrade".

La dichiarazione di Garvey è arrivata poco dopo l'esito dell'asta italiana che, sebbene sia stata caratterizzata da una buona domanda da parte degli investitori, ha visto salire in modo notevole i costi di finanziamento del debito.

La pressione sui BTP - attesa per domani l'asta - è così continuata, tanto che i rendimenti dei bond decennali a salire fino alla soglia del 5%.

Commentando l'asta, sempre intervistato dal wall Street Journal, Jan von Gerich, responsabile degli analisti presso Nordea, ha affermato che l'emissione di oggi "mostra chiaramente che i costi di finanziamento per l'Italia sono saliti, sebbene un rendimento appena al di sotto del 2% per i titoli a sei mesi non possa essere considerato ancora elevato". Detto questo, l'esperto ha anche sottolineato che lo stesso rendimento è più alto rispetto alla precedente asta "in modo considerevole".

Von Gerich ha infine precisato che l'allargamento degli spread BTP/Bund è "fonte di preoccupazione" e che in generale l'Italia è sempre più sotto pressione per rimettere i conti in ordine.

(sylvestro)
00domenica 15 gennaio 2012 07:30
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