Fallimento banche postate le news

Versione Completa   Stampa   Cerca   Utenti   Iscriviti     Condividi : FacebookTwitter
Pagine: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, ..., 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, [31], 32, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40
dgambera
00martedì 1 marzo 2011 14:40
Re: Re:
dgambera, 2/19/2011 11:31 PM:




Asta marginale BCE: picchi causati dalle banche irlandesi

Scritto il 19 febbraio 2011 alle 19:43 da Dream Theater

Il mistero è durato un paio di giorni e poi oggi finalmente è stata scovata la notizia. Ad essere sincero me l’ha segnalata l’amico Andrea che, via email, mi scrive: “Visto che hanno trovato il colpevole?” Io che il week end lo decido il meno possibile al blog e il più possibile alla famiglia (capirete il perchè…) ancora non sapevo.. e non ho potuto non fare gli “straodinari”. La causa è Made in Ireland. Ancora loro, le banche irlandesi. Anglo Irish Bank and Irish Nationwide Building Society.

Ma andiamo con ordine.

In due giorni di seguito, il 17 e il 18 febbraio, qualcuno è ricorso ai prestiti d’emergenza della Banca centrale europea rispettivamente per 15,8 e 16,09 miliardi di euro, da restituire o rinnovare di giorno in giorno, al tasso dell’1,75%, a circa il doppio di quanto ci si potrebbe finanziare in asta. Questa news ha messo gli operatori (NON i mercati, che sono sembrati abbastanza apatici e positivi, malgrado tutto), in pre-allarme. Anche perchè si tratta di cifre da capogiro. Circa 16 miliardi di Euro. E tenete conto che mediamente queste operazioni la BCE le fa per non oltre il miliardo di Euro. DI QUESTO E DI ALTRO TROVATE NEWS E COMMENTI QUI.

Ovvio che è scattato il toto scommesse su cosa poteva essere accaduto. Ipotesi “Fat Finger” ovvero errore tecnico di uno operatore che, con il dito grasso (che fantasia…) ha sbagliato a pigiare un bottone? Oppure qualcuno che in asta non aveva richiesto denaro a sufficienza e che ora doveva coprirsi? Ipotesi queste abbastanza pittoresche, non impossibili ma improbabili. E poi l’ultima ipotesi. Quella più pericolosa, ovvero banca in crisi di liquidità. Ma anche in quest’ambito era difficile capire. La BCE si è limitata a dire che NON era un errore. Ma chi era l’attore? Una banca? E di dove? Spagna? Portogallo? Grecia? Irlanda? Belgio? Addirittura girava un rumors su una banca tedesca.

E credetemi, nessuna di queste ipotesi era da scartare. Il mercato sa bene che ci sono tante banche corte. C’è imbarazzo della scelta. Ma oggi pomeriggio la solita Reuters esce con una nota e batte tutti sul tempo.

(Reuters) – Anglo Irish Bank and Irish Nationwide Building Society were behind the spike in emergency borrowing from the European Central Bank as they seek a speedy sale of their deposit books, a source told Reuters on Saturday. The two troubled lenders, at the heart of Ireland’s financial crisis, are selling deposits and corresponding assets as part of a wind-down of their operations under an EU/IMF bailout deal. To ensure a sale within the next week, they have had to withdraw the underlying assets, around 15 billion euros (12.6 billion pounds) in state-backed IOUs, as collateral from the normal week-long ECB borrowing facility and swap them instead for emergency overnight loans, the source, who is familiar with the sales process, said.

…notizia poi anche confermata da The Times. Ancora le banche irlandesi con necessità di liquidità e con titoli illiquidi in tasca. E la BCE…ormai è certamente la più grande discarica finanziaria del globo, un hedge fund dove potrete trovale le più inimmaginabili schifezze. Tanto che sono in tanti a definire la BCE come il nuovo, clamoroso, mostruoso Schema Ponzi. Vi ho allietato la serata?

Torno ad eclissarmi…




Irlanda nuovamente protagonista con elezioni e rifinanziamento marginale record

Scritto il 1 marzo 2011 alle 10:58 da Dream Theater

Verrebbe quasi da dire che ci abbiamo fatto l’abitudine. Ma non mi voglio abbassare a questi luoghi comuni, proprio perché i mercati sono favolosi nel “fregarti” proprio quando meno te lo aspetti.
Ricorderete sicuramente quelle manovre “straordinarie” che hanno visto come protagoniste due banche irlandesi. Mi riferisco a quelle operazioni di rifinanziamento marginale da record. Dopo qualche giorno di “tregua”, con operatività nuovamente limitata a qualche paio di miliardi di Euro, ecco la sorpresa. In un solo boccone le banche irlandesi si sono pappate la bellezza di 17.1 miliardi di Euro. This is a new record! Complimenti vivissimi!
Come sempre non ci viene comunicato a chi sono state fornite queste cifre. Lasciamo perdere l’ipotesi “fat finger” e quindi la possibilità di errore. E’ sicuramente un’operazione a favore di qualche istituto in forte difficoltà. E ovviamente noi puntiamo subito il dito su Dublino, ed in particolare su Allied Irish bank ed INBS.



Ma poi le ipotesi vengono confermate ed ecco cosa è successo.

Allied Irish Banks ‘won’ an ‘auction’ of ‘deposits’ from bust lender Anglo Irish last week. In reality, and as Ireland’s premier central bank watcher Lorcan has explained, the point of the ‘auction’ wasn’t just to divest a doomed bank of deposits, but also to aid the funding of Allied Irish Banks.
Allied Irish also ‘won’ €12.2bn of Nama bonds — debt issued to Anglo Irish in return for sending troubled loans to Ireland’s bad bank, which carries a government guarantee and is therefore eligible collateral for open market operations at the ECB.
Swiftly eligible, in the case of what Allied Irish has just done with the €12.2bn — throw in €3bn of old Irish Nationwide Nama bonds sold to Irish Life & Permanent, and you get Monday’s borrowing figure.
Certainly, Allied Irish’s new purchases have been sent straight to the Marginal Lending Facility — at a penalty interest rate of 1.75 per cent. Nevertheless, that’s only in order to wait for entry into this week’s (1 per cent) Main Refinancing Operation. (Source: FT)

Un vero e proprio paciugo all’irlandese, un minestrone che alla fine danneggia tutti, BCE, Irlandesi e contribuenti d’Irlanda e non.

Intanto sempre in Irlanda, la prevista vittoria elettorale della coalizione di centrosinistra accresce il rischio di tagli unilaterali ai crediti degli obbligazionisti senior (e non solo junior ovvero possessori di bond subordinati ) delle banche irlandesi, anche se l’UE e la BCE hanno escluso categoricamente l’ipotesi rinegoziazione del debito. Certo è che, comunque vada, le elezioni in Irlanda non posso che portare volatilità. E associato all’ennesimo finanziamento marginale record, non possono che portarci ad un atteggiamento prudente.

STAY TUNED!

DT
laplace77
00mercoledì 2 marzo 2011 09:16
dgambera
00sabato 5 marzo 2011 23:36
Il governatore della Banca d'Inghilterra King: un'altra crisi è possibile, le banche non sono cambiate

di Nicol Degli Innocenti 5 marzo 2011




LONDRA - Un'altra devastante crisi finanziaria è possibile, e la ragione è che le banche non hanno cambiato il loro modus operandi, guardano solo al breve termine e pensano ancora che sia "perfettamente accettabile" massimizzare i profitti sfruttando i loro "clienti ingenui". A fare queste affermazioni taglienti è Mervyn King, il governatore della Banca d'Inghilterra, che in una rara intervista pubblicata oggi dal Daily Telegraph non ha risparmiato le critiche alle banche britanniche.

"Perché le banche pagano i bonus? Perché vivono nel mondo del ‘troppo grande per fallire' in cui lo stato li salverà se le cose vanno male, - ha detto King. – Questo concetto di troppo grande o troppo importante per fallire non dovrebbe neanche esistere in una vera economia di mercato." La riforma del settore non è stata abbastanza profonda e per questo restano dei "profondi squilibri" che potrebbero portare a un'altra crisi, ha avvertito il governatore.

Le critiche di King hanno particolare significato perché il governatore nel 2012 diventerà il massimo "controllore" del settore bancario, in seguito alla decisione del Governo di abolire la Financial Services Authority e trasferire i suoi poteri a un nuovo ente guidato dalla Banca d'Inghilterra. L'Independent Banking Commission sta inoltre decidendo se imporre alle banche considerate ‘troppo grandi' di scindere la divisione retail dall'investment banking, ipotesi fortemente osteggiata dagli istituti di credito. Il rapporto della Comissione verra' presentato in settembre.

Le parole del governatore hanno scosso il settore, che si è prontamente difeso. Angela Knight, chief executive della British Bankers' Association, ha detto di avere il "massimo rispetto" per King ma che in questo caso il governatore ha sbagliato in pieno. E' vero che il settore "ha fatto dei gravi errori durante la crisi, - ha detto, - ma ora è radicalmente cambiato e i rischi sono sotto controllo. Siamo arrivati dove siamo facendo le cose per bene, non facendole male."

Meno diplomatico l'economista Tim Congdon, che ha definito "incredibile" che King abbia sferrato un tale attacco contro la struttura stessa di un settore nel quale opera da vent'anni: "Le critiche riducono la credibilità delle banche e preoccupano la gente, - ha detto. – Il ruolo del governatore della Banca d'Inghilterra dovrebbe essere quello di sostenere e aiutare le banche."
©RIPRODUZIONE RISERVATA

dgambera
00domenica 6 marzo 2011 19:40
Banche italiane a secco di bond. Cartolarizzazioni bloccate ma gli istituti si rifanno sui clienti

di Morya Longo 06 marzo 2011


Se emettono obbligazioni, sono costrette a pagare interessi sull'Euribor cinque volte più alti che nel 2008. Se vogliono raccogliere capitale, sono obbligate a farlo a prezzi stracciati. Se vanno sul mercato interbancario, si devono accontentare di finanziamenti a brevissimo termine. Se vogliono cartolarizzare i mutui, non ci riescono proprio. Per le banche italiane raccogliere liquidità e capitale è diventato un vero problema: l'aumento del rischio-Paese, che rende gli istituti di credito nostrani meno appetibili agli occhi degli investitori esteri, sta sottraendo loro ossigeno (cioè liquidità).

Il problema sarebbe gigantesco se gli istituti di credito non avessero due valvole di sfogo: la clientela e la Banca centrale europea. E se non fossero in attesa di un regalo: il rialzo dei tassi in Europa. Perché le banche soffrono, ma alla fine una scappatoia la trovano: far pagare il conto ai più deboli. Famiglie e imprese.

"Credit crunch" per le banche
Quando il 5 gennaio scorso Intesa Sanpaolo ha lanciato obbligazioni quinquennali, il mercato ha esultato: l'operazione dimostrava che gli investitori internazionali sono ancora disposti a comprare titoli di banche italiane. Peccato che Intesa sia stata costretta ad offrire agli investitori un "premio" di 175 punti base sopra il tasso swap. Cioè un rendimento del 4,216%. Un anno prima, nel gennaio 2010, la stessa Intesa aveva collocato un bond di identica durata pagando tre volte meno: solo 65 punti base. E stiamo parlando di una delle banche più solide d'Italia. Figuriamoci le altre. Tante non riescono neppure ad emettere un bond, come è accaduto al Banco Popolare. Questo è il problema: dal settembre 2008 ad oggi – calcola McKinsey – le emissioni nette bancarie italiane destinate ai mercati internazionali sono diminuite da 58 miliardi medi annui a 41. Contemporaneamente il costo, per le banche, è quintuplicato da 22 punti base medi sull'Euribor a 100.

Si dirà: non si vive di sole obbligazioni. Peccato che le altre fonti di finanziamento siano altrettanto aride. Non esiste operatore che non denunci le difficoltà che si incontrano a raccogliere denari sul mercato interbancario: qualcosa migliora, certo, ma solo per le banche più solide. Ancora peggio sul versante delle cartolarizzazioni. Ci sono i "covered bond" (titoli anch'essi garantiti da mutui), ma ormai anche su questi gli istituti sono costretti a offrire tassi d'interesse elevati. In secca c'è anche il canale degli aumenti di capitale: negli ultimi anni ne sono stati realizzati mediamente 2,8 l'anno, contro i 4,1 prima della crisi. E lo sconto concesso agli investitori è quasi triplicato. Morale della favola: qualunque strada per finanziarsi è cara e difficile da percorrere.

La valvola di sfogo: i clienti
Il problema è di tutti in Europa. Ma in Italia, rispetto a Paesi come Francia o Germania, c'è un'aggravante: il rischio-Stato. Questo rende gli istituti italiani meno appetibili, pur a parità di solidità patrimoniale. A questo punto ci si potrebbe chiedere come facciano le banche italiane a stare in piedi. La risposta è semplice: tutto quello che non riescono a raccogliere sui mercati internazionali, lo "prelevano" dalla clientela. Secondo alcune stime, le principali istituzioni creditizie italiane ottengono infatti il 69% delle necessità finanziarie attraverso la clientela retail. Ci sarebbero anche i finanziamenti erogati ogni settimana dalla Bce, ma gli istituti italiani non amano andare a Francoforte. Sono i numeri a dirlo: a fine gennaio le banche italiane, che hanno il 12% degli attivi di tutta Europa, hanno "prelevato" solo 47 miliardi (pari al 9,8% dei 479 miliardi di finanziamenti erogati dalla Bce in Europa).

Il motivo per cui non usano tanto la Bce, come detto, è che le banche italiane trovano nella clientela una buona fonte di approvvigionamento a basso costo. Un esempio? Un paio di settimane fa il Banco Popolare ha venduto agli investitori istituzionali un "covered bond" (cioè garantito anche da mutui e valutato "Tripla A") pagando un rendimento del 4,173%. Contemporaneamente lo stesso Banco Popolare colloca ai suoi clienti retail obbligazioni a tasso fisso (non garantite da mutui e dunque più rischiose) pagando il 3,02 per cento.

Insomma: agli investitori professionisti offre obbligazioni iper-sicure a rendimenti elevati, mentre alle famiglie "riserva" quelle più rischiose a interessi dimezzati. I risparmiatori prendono più rischio in cambio di minore rendimento. E questo è solo un esempio: tutti – sebbene oggi la situazione sia migliorata rispetto a un tempo – fanno così. «Le banche italiane riescono a mitigare l'effetto negativo dell'aumento del costo della raccolta sui mercati internazionali attraverso la clientela retail – conferma Giulio Codacci Pisanelli di Bnp Paribas –. Questo riduce il costo medio della raccolta, ma diminuisce anche il reddito commissariale che le banche hanno tramite il collocamento di titoli di emittenti terzi».

Presto arriverà anche un altro regalino: il rialzo dei tassi Bce. Spesso gli istituti di credito, quando questo accade, alzano subito il costo dei finanziamenti a famiglie e imprese ma non sono altrettanto tempestive nel rincarare i tassi sui depositi. Questo consente loro di aumentare i ricavi. Ma a pagare sono ancora i clienti.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

laplace77
00domenica 6 marzo 2011 20:19
Re:
dgambera, 06/03/2011 19.40:

Banche italiane a secco di bond. Cartolarizzazioni bloccate ma gli istituti si rifanno sui clienti

di Morya Longo 06 marzo 2011


...

Il motivo per cui non usano tanto la Bce, come detto, è che le banche italiane trovano nella clientela una buona fonte di approvvigionamento a basso costo. Un esempio? Un paio di settimane fa il Banco Popolare ha venduto agli investitori istituzionali un "covered bond" (cioè garantito anche da mutui e valutato "Tripla A") pagando un rendimento del 4,173%. Contemporaneamente lo stesso Banco Popolare colloca ai suoi clienti retail obbligazioni a tasso fisso (non garantite da mutui e dunque più rischiose) pagando il 3,02 per cento.

Insomma: agli investitori professionisti offre obbligazioni iper-sicure a rendimenti elevati, mentre alle famiglie "riserva" quelle più rischiose a interessi dimezzati. I risparmiatori prendono più rischio in cambio di minore rendimento. E questo è solo un esempio: tutti – sebbene oggi la situazione sia migliorata rispetto a un tempo – fanno così. «Le banche italiane riescono a mitigare l'effetto negativo dell'aumento del costo della raccolta sui mercati internazionali attraverso la clientela retail – conferma Giulio Codacci Pisanelli di Bnp Paribas –. Questo riduce il costo medio della raccolta, ma diminuisce anche il reddito commissariale che le banche hanno tramite il collocamento di titoli di emittenti terzi».

...

© RIPRODUZIONE RISERVATA





garantite, dice...

ghghghghgh


...mi sa tanto di "bufala"-"finto scandalo", di modo che un domani il retail faccia la fila per comprare dagli istituzionali il rimpasto di quelle "garantite'...

cmq...

"daje co' 'sti cerini, daje"...

[SM=g1934144] [SM=g1934144] [SM=g1934144]

grella
00domenica 6 marzo 2011 20:38
Re: Re:
laplace77, 06/03/2011 20.19:




garantite, dice...

ghghghghgh


...mi sa tanto di "bufala"-"finto scandalo", di modo che un domani il retail faccia la fila per comprare dagli istituzionali il rimpasto di quelle "garantite'...

cmq...

"daje co' 'sti cerini, daje"...

[SM=g1934144] [SM=g1934144] [SM=g1934144]




Della serie: "Anch'io voglio quelle garantite dai mutui.........."..........quelle buone che date alle banche....... [SM=g1747529] [SM=g1747532] [SM=g1750147]




laplace77
00domenica 6 marzo 2011 22:33
Re: Re: Re:
grella, 06/03/2011 20.38:



Della serie: "Anch'io voglio quelle garantite dai mutui.........."..........quelle buone che date alle banche....... [SM=g1747529] [SM=g1747532] [SM=g1750147]




ghghghghghgh, spettacolare eh?

magari me pijassero pe' piazzanne un po' de 'sti cerini...

sai che divertimento smollarli al "middle class", magari ereditiero...

[SM=g9128] [SM=g9128] [SM=g9128]


dgambera
00mercoledì 9 marzo 2011 13:43
Declassate le maggiori banche greche
In mattinata Moody's ha annunciato di aver abbassato il rating alle cinque principali banche della Grecia, come conseguenza al taglio di tre gradini deciso lunedì dall'agenzia per la nota di merito sul debito sovrano ellenico. Gli istituti bocciati sono: la Banca nazionale della Grecia (Bng), Efg Eurobank, Alpha Bank, la Banca del Pireo e la Banca agricola della Grecia. Moody's ha ridotto il rating anche a un istituto minore, Attica Bank. L'indice settoriale Euro stoxx ne risente cedendo mezzo punto percentuale. La prospettiva (outlook) di questi istituti è definita «negativa». Il ministero delle finanze aveva reagito nei giorni scorsi con durezza al downgrading del debito sovrano da Ba1 a B1 definendolo «completamente ingiustificato».
dgambera
00mercoledì 9 marzo 2011 14:23
Stress test più duri per i «big» europei

di Maximilian Cellino 09 marzo 2011


Far dimenticare quella che per le anime più critiche si è rivelata una vera e propria farsa. L'obiettivo è chiaro per i nuovi stress test, la seconda tornata di simulazioni della European banking authority (Eba) per misurare il vero grado di resistenza delle banche agli shock. Ma a giudicare dalle prime indicazioni che si ricavano dal documento informativo trasmesso dalla stessa Eba alle banche interessate, recuperare credibilità non sarà un compito semplice.

Tra i criteri che saranno probabilmente utilizzati per testare 88 istituti finanziari europei (erano 91) non mancano, va detto, le note positive. «Rispetto allo scorso anno – osserva Andrea Federico, partner di Oliver Wyman – il test è di sicuro rafforzato, perché include tra gli scenari negativi uno shock sulla liquidità e la crisi del settore immobiliare, elementi fondamentali in precedenza ignorati». E in effetti, fra le possibilità di cui si dovrà tenere conto per misurare la solidità delle banche nei prossimi due anni figurano, oltre che una contrazione dell'economia dello 0,5% nel 2011 e dello 0,2% nel 2012, anche un calo del 15% delle Borse europee, un tracollo del mercato immobiliare e soprattutto un aumento dei tassi di interesse sui prestiti interbancari di 125 punti base.

Non è detto però che le maglie si rivelino stavolta strette a sufficienza da non lasciar sfuggire banche potenzialmente a rischio (soltanto 7 istituti, nessuno irlandese, avevano fallito il test la scorsa primavera). Già sul criterio del costo del denaro sorgono perplessità, visto che con l'atteggiamento aggressivo della Bce verso l'inflazione i mercati scontano un rialzo del tasso Euribor di oltre 160 punti base da oggi (1,18%) a fine 2012 (2,85%): il rischio di aver peccato di eccessivo ottimismo è quindi più che concreto.

Ma è sulla questione della crisi del debito sovrano europeo che si annidano i principali dubbi. Anche in questo caso il passo avanti è significativo: per la prima volta si prende in considerazione un aumento di 75 punti base nei rendimenti a lungo termine dei bond governativi dell'Eurozona (evento che costringerebbe le banche a svalutare i titoli che in gran quantità detengono in portafoglio). Non è stata però eliminata la differenziazione già ampiamente criticata lo scorso anno fra i bond che sono detenuti a scopo di negoziazione (trading book) e quelli che invece sono destinati all'attività proprietaria (banking book). «Questi ultimi – spiega Federico – rappresentano per alcuni istituti di credito una porzione crescente del portafoglio, ma non vengono valutati al valore di mercato e quindi di fatto sfuggono agli stress test».

Il calendario prevede venerdì prossimo un incontro tecnico in Bankitalia sulle procedure da utilizzare per le 5 banche italiane coinvolte negli stress test dello scorso anno (Intesa Sanpaolo, UniCredit, Mps, Banco Popolare e Ubi), la pubblicazione degli scenari macro e della lista definitiva degli istituti di credito interessati il 18 marzo e quella dei principi generali della metodologia il mese prossimo. Per i risultati finali dei nuovi stress test occorrerà invece pazientare fino a giugno.

m.cellino@ilsole24ore.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA

dgambera
00giovedì 10 marzo 2011 12:12
Le banche italiane in fuga dai periferici fanno incetta di BTp

di Morya Longo 10 marzo 2011


«Con la crisi che ha colpito molti paesi europei e molti stati extraeuropei, cosa dovrei fare io? Investo soprattutto su titoli di stato italiani, non ho molta scelta». Non è un risparmiatore iper-prudente a parlare, ma il capo della sala operativa di una grande banca italiana. La sua, come tutte le altre, negli ultimi anni ha infatti riempito il bilancio di titoli di stato italiani. Sono i numeri a dirlo. Dal gennaio 2009 a oggi – calcola la Bce – le banche della Penisola hanno incrementato del 37% l'ammontare di titoli di stato (di tutto il mondo) in portafoglio. Contemporaneamente – calcola la Bri fermando i dati al settembre 2010 – le stesse banche italiane hanno ridotto l'esposizione su tutti i paesi europei (esclusa l'Italia) del 19%. Mettendo le due cose insieme, è facile trarre le conseguenze: gli istituti di credito made in Italy hanno venduto titoli di stato stranieri, ma hanno comprato a piene mani i BTp italiani.

Questo è in apparenza un comportamento prudente: aver ridotto in bilancio l'esposizione sulla Grecia e sugli altri paesi in crisi, ripara le banche italiane dalle turbolenze. Ma questo comportamento rischia potenzialmente di creare un cortocircuito: se fossero infatti i titoli di stato italiani a finire nella bufera? Le banche italiane soffrirebbero, quindi (in ipotesi estreme) lo stato potrebbe anche essere costretto a salvarne qualcuna. Questo aggraverebbe ulteriormente la situazione dei conti pubblici, penalizzando ancora di più i BTp. Dunque, di riflesso, le banche. Insomma: questa abbuffata di BTp da parte degli istituti di credito rischia – almeno potenzialmente – di creare un vortice. Ovvio che queste sono ipotesi estreme. Teoriche. Forse irrealizzabili. Però il problema resta: se si vuole ridurre il cosiddetto rischio sistemico (cade uno, cadono tutti), riempire le banche italiane di titoli di stato italiani non è una mossa particolarmente azzeccata. Perché, appunto, così facendo se cade uno cadono tutti.

BTp mon amour
Se si accende un faro sui principali istituti di credito, si scopre che – più o meno – così fan tutti. Intesa Sanpaolo al settembre 2010 aveva in bilancio titoli dello stato o degli enti locali italiani per un totale di 64,6 miliardi di euro: solo tre mesi prima, a giugno, l'esposizione era invece di 58,6 miliardi. Insomma, in soli tre mesi Intesa Sanpaolo ha aumentato il "peso" del rischio Italia nel proprio bilancio di 6 miliardi. Due miliardi al mese. Un aumento del 10%. Purtroppo non esistono dati precedenti, per fare ulteriori confronti.

Ancora più avari di informazioni gli altri big italiani. Per quanto riguarda UniCredit, si sa solo che al 31 marzo 2010 – quando furono realizzati gli stress test – l'istituto aveva in portafoglio titoli di stato italiani per 38,8 miliardi di euro. Il Monte dei Paschi, a settembre 2010, aveva invece 21 miliardi di euro di BTp, pari al 61% dell'intero portafoglio di titoli di stato. Calcola la Bce che le banche italiane dal gennaio 2003 al gennaio 2009 hanno mantenuto invariati, tra 176-191 miliardi, i titoli di stati (mondiali) in portafoglio. Dal 2009 a oggi, invece, li hanno aumentati vertiginosamente: da 183 miliardi a 250. Ovvio che l'incremento sia dovuto all'acquisto di BTp: lo testimoniano i dati dei singoli istituti.

I motivi dello shopping
Le ragioni per cui le banche italiane (ma non solo) si riempiono di BTp sono tanti. Ci sono innanzitutto motivi di mercato: le sale operative degli istituti di credito hanno l'imperativo categorico di alleggerirsi di alcuni paesi rischiosi. E lo stanno facendo: dal gennaio 2009 – calcola la Bri – le banche italiane hanno ridotto del 37% l'esposizione sull'Irlanda, del 45% quella sulla Grecia e del 23% quella sul Portogallo. Più stabile la Spagna. Quello che appare più curioso, però, è che abbiano ridotto del 19% anche l'esposizione sulla Francia e del 18% quella sulla Germania. Insomma: sembra quasi che abbiano messo in atto una grande ritirata dall'estero. Per fare cosa? Per comprare BTp.
Ma è anche la regolamentazione di Basilea 2 e della Banca d'Italia (disposizione 263 del 2006) a incentivare l'acquisto. Se un istituto acquista titoli di stato di Eurolandia denominati in euro, per legge, non deve accantonare capitale per far fronte ai rischi. Per ogni altra obbligazione la normativa prevede che più il bond è rischioso più una banca debba mettere da parte del capitale: per i titoli di stato europei no. Una banca ne può comprarne all'infinito, senza assorbire un euro di capitale, qualunque sia il loro rischio effettivo. Questo incentiva dunque gli acquisti di bond statali dell'Europa. E, in Italia, di BTp. Non solo. Sempre le disposizioni di Bankitalia permettono alle banche di non registrare le minusvalenze in bilancio (anche nella voce «available for sale») per BTp & company. Morale: se una banca è piena di titoli di stato europei, non registra perdite. Nella finzione dei bilanci, i titoli di stato europei sono ancora «zero rischio». Sarebbe ovviamente bello se fosse così anche nella realtà.

m.longo@ilsole24ore.com

©RIPRODUZIONE RISERVATA

dgambera
00giovedì 10 marzo 2011 12:17
Due inglesi agli arresti per il default della Kaupthing - Le esposizioni delle banche con i debiti sovrani

articoli di Leonardo Maisano, Morya Longo, Maximilian Cellino e Walter Riolfi 10 marzo 2011


dal corrispondente Leonardo Maisano
LONDRA - Vincent, doveva prendere il volo ieri sera per ospitare decine di amici sul Veni Vidi Vici, yacht da 40 metri ormeggiato a Cannes. Faranno festa senza di lui e senza il fratello Robert che lo avrebbe probabilmente seguito oggi sistemandosi su My Little Violet che troppo piccola non è, essendo una barca di superlusso che supera i 45 metri. Vincent e Robert Tchenguiz, 54 e 50 anni, simbolo del boom immobiliare britannico, tycoon nati a Teheran e venuti (quasi ) dal nulla sono in prigione.

Alle 5 di ieri mattina 135 agenti del Serious Fraud Office e della polizia di Londra hanno occupato la sede che fu dell'Mi 5 lo spionaggio inglese, in Curzon street, Mayfair, oggi quartier generale di Rotch group, holding dei due fratelli persiani. Agenti hanno anche perquisito le nove abitazioni londinesi riconducibili agli uomini divenuti paradigma dell'opulenza britannica garantita dal mattone.

L'accusa mossa loro è di aver avuto un ruolo nel fallimento di Kaupthing, la banca d'investimento islandese crollata sotto i colpi del credit crunch. L'operazione di polizia coordinata con le autorità islandesi ha portato all'arresto di nove persone in tutto di cui due a Reykjavik. In un comunicato diffusso in mattinata Robert e Vincent hanno confermato l'arresto precisando di "collaborare attivamente con le autorità nella certezza di poter chiarire tutto al più presto". La sensazione è che non sarà una cosa rapidissima e che certamente il party di Cannes dove 18mila operatori internazionali del settore immobiliare sono riuniti per misurarsi con le conseguenze della crisi, si farà senza d loro.

Robert e Vincent Tchenguiz il prezzo, economico, della crisi in parte l'hanno già pagato. E proprio grazie a Kaupthing. Il fallimento della banca islandese, quella favorita dai due tycoon, costò loro 1 miliardo di sterline di perdite in meno di 24 ore. Fu il caso più clamoroso nei giorni da primato dell'autunno 2008. Ma quando l'episodio emerse non era affatto chiaro il ruolo che i due fratelli avevano nella banca. Vittime sì, ma secondo gli inquirenti correi di una gestione garibaldina che si reggeva sulla concessione di linee di credito senza limiti, in deal finanziari chiusi con una leva estrema. Operazioni intrepide, parevano, prima di una caduta rapidissima: in poche ore tre banche islandesi con fortissima esposizione nel Regno Unito - Kaupthing, Landsbanki , Glitnir - saltarono sotto i debiti,innescando il precipitare di un sistema che travolse molto più degli azionisti, gettando l'Islanda tutta in una crisi gravissima. Da allora le autorità di Reykjiavik in accordo con quelle inglesi hanno cominciato a ricostruire la trama del dissesto e lo scorso anno fu perquisita la sede di Kaupthing in Lussemburgo. Contemporaneamente cominciò la battaglia dei liquidatori del gruppo per recuperare parte dei crediti e cominciò anche la battaglia dei Tchenguiz che continuano a ritenersi vittime di un raggiro. Il management della banca li avrebbe truffati, sostengono da tempo e per questo hanno avviato cause legali elecando il numerio infinito di partecipazioni - fra cui il 10 % dei supermercati Sainsbury - che faceva capo a loro nel 2007. Erano gli anni in cui i due fratelli iraniani erano "valutati" quattro miliardi di sterline. Tempi andati, almeno per ora

©RIPRODUZIONE RISERVATA

laplace77
00giovedì 10 marzo 2011 20:51
cambiano le regole sui rimborsi per fallimenti bancari?

...che e' ancora "in progress"...

fonte: corriere

ma la restituzione del denaro sarà più rapida

Calano i rimborsi al correntista
in caso di fallimento della banca


Un decreto che recepisce una direttiva europea porterà da 103.291,38 a 100.000 euro il limite massimo

MILANO - Giovedì in Consiglio dei ministri un decreto legislativo modificherà l'attuale normativa in materia di rimborsi ai correntisti in caso di fallimento bancario. Armonizzandola a livello europeo. La nuova normativa, che permette di far entrare in vigore una direttiva Ue, prevede un massimo di 100 mila euro per il rimborso di ogni correntista in caso di fallimento della banca. Rimborso che deve arrivare entro venti giorni dalla liquidazione coatta, prorogabili in circostanze eccezionali per altri dieci giorni da Bankitalia.

LA NORMATIVA ATTUALE - L'attuale normativa prevede invece un rimborso di 103.291,38 euro, ma con tempi di rimborso più lunghi. L'approccio di armonizzazione minima adottato in precedenza aveva prodotto in Europa differenze significative tra i livelli di copertura negli Stati membri che sono attualmente molto eterogenei: vanno da un minimo di 50 mila euro per alcuni Paesi a garanzie illimitate per altri. La nuova direttiva, al fine di evitare distorsioni e garantire condizioni operative uniformi nel mercato interno, stabilisce un livello di copertura uguale per tutti.

Redazione online
09 marzo 2011


ma con la nuova normativa, il minimo in italia quanto sarebbe??

[SM=g7728] [SM=g7728] [SM=g7728]

laplace77
00lunedì 14 marzo 2011 17:41
Re:
dgambera, 10/03/2011 12.12:

Le banche italiane in fuga dai periferici fanno incetta di BTp

di Morya Longo 10 marzo 2011


«Con la crisi che ha colpito molti paesi europei e molti stati extraeuropei, cosa dovrei fare io? Investo soprattutto su titoli di stato italiani, non ho molta scelta». Non è un risparmiatore iper-prudente a parlare, ma il capo della sala operativa di una grande banca italiana. La sua, come tutte le altre, negli ultimi anni ha infatti riempito il bilancio di titoli di stato italiani. Sono i numeri a dirlo. Dal gennaio 2009 a oggi – calcola la Bce – le banche della Penisola hanno incrementato del 37% l'ammontare di titoli di stato (di tutto il mondo) in portafoglio. Contemporaneamente – calcola la Bri fermando i dati al settembre 2010 – le stesse banche italiane hanno ridotto l'esposizione su tutti i paesi europei (esclusa l'Italia) del 19%. Mettendo le due cose insieme, è facile trarre le conseguenze: gli istituti di credito made in Italy hanno venduto titoli di stato stranieri, ma hanno comprato a piene mani i BTp italiani.

Questo è in apparenza un comportamento prudente: aver ridotto in bilancio l'esposizione sulla Grecia e sugli altri paesi in crisi, ripara le banche italiane dalle turbolenze. Ma questo comportamento rischia potenzialmente di creare un cortocircuito: se fossero infatti i titoli di stato italiani a finire nella bufera? Le banche italiane soffrirebbero, quindi (in ipotesi estreme) lo stato potrebbe anche essere costretto a salvarne qualcuna. Questo aggraverebbe ulteriormente la situazione dei conti pubblici, penalizzando ancora di più i BTp. Dunque, di riflesso, le banche. Insomma: questa abbuffata di BTp da parte degli istituti di credito rischia – almeno potenzialmente – di creare un vortice. Ovvio che queste sono ipotesi estreme. Teoriche. Forse irrealizzabili. Però il problema resta: se si vuole ridurre il cosiddetto rischio sistemico (cade uno, cadono tutti), riempire le banche italiane di titoli di stato italiani non è una mossa particolarmente azzeccata. Perché, appunto, così facendo se cade uno cadono tutti.


...

Ma è anche la regolamentazione di Basilea 2 e della Banca d'Italia (disposizione 263 del 2006) a incentivare l'acquisto. Se un istituto acquista titoli di stato di Eurolandia denominati in euro, per legge, non deve accantonare capitale per far fronte ai rischi. Per ogni altra obbligazione la normativa prevede che più il bond è rischioso più una banca debba mettere da parte del capitale: per i titoli di stato europei no. Una banca ne può comprarne all'infinito, senza assorbire un euro di capitale, qualunque sia il loro rischio effettivo. Questo incentiva dunque gli acquisti di bond statali dell'Europa. E, in Italia, di BTp. Non solo. Sempre le disposizioni di Bankitalia permettono alle banche di non registrare le minusvalenze in bilancio (anche nella voce «available for sale») per BTp & company. Morale: se una banca è piena di titoli di stato europei, non registra perdite. Nella finzione dei bilanci, i titoli di stato europei sono ancora «zero rischio». Sarebbe ovviamente bello se fosse così anche nella realtà.

m.longo@ilsole24ore.com

©RIPRODUZIONE RISERVATA





contrordine??

14:46 - Banche: Bri, cresce esposizione italiane verso paesi periferici Ue

A fine settembre sopra 80 mld dollari (+5,6% da giugno)

(Il Sole 24 Ore Radiocor) - Roma, 14 mar - Cresce
l'esposizione totale delle banche italiane verso i quattro
paesi 'periferici' dell'Eurozona. E' il dato che emerge dal
rapporto trimestrale della Bri riferito al terzo trimestre
dello scorso anno. L'esposizione complessiva delle banche
italiane (total exposures) verso Grecia, Irlanda, Portogallo
e Spagna e' di 80,6 miliardi di dollari , dato in crescita
del 5,6% rispetto ai 76,3 miliardi di dollari segnalati alla
fine del secondo trimestre. Le statistiche della Bri tengono
conto sia delle attivita' estere (foreign claims) che sono
aumentate a 53,4 miliardi verso i quattro paesi periferici a
fine settembre (50,4 mld a fine giugno) sia le 'altre
esposizioni' ossia il valore di mercato positivo di
contratti derivati, garanzie rilasciate e impegni creditizi
in quei Paesi. Le banche italiane hanno ridotto
l'esposizione complessiva verso la Grecia (da 6,8 a 6,5
miliardi) e verso l'Irlanda (da 24,7 a 24,4 miliardi di
dollari), mentre e' in aumento quella nei confronti del
Portogallo (7,9 miliardi da 7,6) e soprattutto Spagna: da
37,2 a 41,8 miliardi di dollari. Il fenomeno, si legge sul
rapporto della Bri, ha interessato anche gli altri sistemi
bancari dei Paesi piu' avanzati. Un dato per tutti:
l'esposizione totale delle banche tedesche in Spagna e'
salita in un trimestre da 216,6 a 242,4 miliardi di dollari.
La Bri ricorda che il dato sull'esposizione totale non
rappresenta una stima delle potenziali perdite sugli asset
che un sistema bancario ha in uno dei Paesi periferici
nell'eventualita' di un forte shock negativo.


[SM=g9128]


dgambera
00venerdì 18 marzo 2011 16:48
Nella lista degli stress test 2011 confermate le cinque big italiane. Ecco i nuovi criteri

18 marzo 2011


La nuova tornata di stress test sulle banche europee si preannuncia un po' più severa, ma non come da molti auspicato, dei test effettuati lo scorso anno su 91 banche europee (non superati da 7 istituti fra i quali però nessuno irlandese). Oggi l'European banking authority (l'Autorità bancaria europea) ha pubblicato il dettaglio della prova di resistenza del sistema bancario a scenari avversi ipotizzati, i cui risultati dovranno essere pronti il 29 aprile ma che saranno pubblicati in giugno.

L'Eba, però, ha lasciato in sospeso la definizione del ratio di solvibilità Tier 1 (indicatore principale della solidità patrimoniale). «L'esatta definizione del capitale e della soglia fissata per lo scopo dell'esercizio sarà fornita più avanti», è scritto nel documento pubblicato oggi dall'Autorità europea.

Confermate le cinque banche italiane
L'Eba non ha neppure divulgato la lista delle banche coinvolte, come aveva promesso il 4 marzo. Secondo quanto apprende Radiocor, però, nella lista dell'Eba sono state confermate le cinque banche italiane (Intesa Sanpaolo, Unicredit, Mps, Banco Popolare e Ubi) che parteciparono alla simulazione dell'estate scorsa. In quell'occasione il risultato del coefficiente Tier1, nello scenario peggiore ipotizzato, risultò pari all'8,2% per Intesa Sanpaolo, al 7,8% per Unicredit, al 7% per il Banco Popolare, al 6,8% per Ubi Banca e al 6,2% per Banca Mps.

La lista delle banche coinvolte
Ci sono ancora delle discussioni in corso con i supervisori nazionali e la lista definitiva dovrebbe essere pubblicata prossimamente. L'Eba si è limitata a indicare che il test di quest'anno riguarderà «un gruppo di banche simile» a quello del 2010 che copre oltre il 65% degli asset del sistema bancario europeo e almeno metà del settore bancario di ogni stato membro. L'anno scorso vennero testate 91 banche e sette risultarono non in linea con i parametri di "sicurezza" (cinque banche spagnole, una tedesca e una greca) salvo poi aggiungerne due grandi istituti irlandesi travolti dalla crisi solo qualche mese dopo.

I nuovi criteri per "stressare" il patrimonio bancario
L'Eba ha indicato che lo stress test, che ha l'obiettivo di valutare i rischi di credito e di mercato in condizioni economiche avverse (probabilità stimata di realizzazione 1%), riguarda sia gli asset del trading book (detenuti per le negoziazioni) sia del banking book (destinati invece all'attività proprietaria), ma che ci sarà «un focus specifico sull'esposizione al rischio sovrano che incorporerà uno choc sovrano che sarà applicato al trading book. Una differenziazione ampiamente critica nella precedente tornata di stress test dato che gli asset all'interno del banking book non vengono valutati al prezzo di mercato e quindi, di fatto, possono bypassare l'esame degli stress test.

Si tratta di calcolare profitti e perdite nelle posizioni di trading in conseguenza di caduta dei mercati finanziari con effetti su una serie di parametri di rischio: tassi di interesse, prezzi azionari e delle materie prime, dividendi, volatilità. Nel caso delle Borse europee il calo indicato è di una caduta del 15%. Tale scenario avverso include lo specifico choc dei paesi sugli spread sul debito sovrano e di qui la valutazione dei tagli (haircut) del valore dei titoli detenuti.

L'assunzione di base è un aumento di bond dell'eurozona a dieci anni di 75 punti base rispetto al livello di 185 punti base a fine 2010, pari a una media di un aumento di 49% negli spread (viene applicata a tutte le scadenza da un anno a 15 anni). La media dei rendimenti dei bond sovrani nell'Eurozona sarebbe di 51 punti base per le scadenze a un anno e di 76 punti base per la scadenza a 15 anni. La valutazione del debito sovrano a 5 anni per l'Italia dell'8,4%, del 13,1% e del 20,1%; per la Germania sarebbe di 2,1%, a 10 anni del 3,5%, a 15 anni del 6,2%; per la Francia 4,1%,7,3% e 13,1%; per la Grecia 12,6%17,1% e 23,6%; per l'Irlanda 12,6%, 19,1% 2 22,7%; per il Portogallo 11,6%, 19,8% e 30,6%; per la Spagna 9%, 14,6%, 23,2%, per il Regno Unito 4,7%, 7,6% e 14,1%.

Come era già stato annunciato, il rischio di liquidità non è «specificatamente valutato come parte di questo stress test» e sarà sottoposto a «specifica verifica per scopi di supervisione». Definizione che indica una cosa precisa: l'Eba non ne divulgherà i risultati. In ogni caso, aggiunge l'Autorità, «lo stress test 2011 valuta l'evoluzione dei costi di finanziamento connessi con la specifica struttura finanziaria delle banche e in particolare per valutare l'impatto di un aumento dei tassi di interesse sugli asset e sulle passività incluso l'impatto degli stress sovrani».

L'Eba indica specificatamente che nello stress test non viene presa in considerazione l'ipotesi di interventi sugli asset in «default» per cui «il portafoglio resterà costante anche se la proporzione degli asset defaulted aumenterà a spese della proporzione dei non-defaulted asset». Per molte banche, indica l'Eba, questa assunzione «è eccessivamente onerosa e rende lo stress molto severo, ma per assicurare la robustezza dell'esercizio e la coerenza è vitale che sia rispettata. «Per evitare ogni dubbio l'Eba e le autorità nazionali sono consapevoli che ciò significa che interventi di 'management' non possono essere inclusi come elementi mitiganti nello stress test».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

fabio_c
00sabato 19 marzo 2011 17:32
Re:
dgambera, 18/03/2011 16.48:

Nella lista degli stress test 2011 confermate le cinque big italiane. Ecco i nuovi criteri

18 marzo 2011


La nuova tornata di stress test sulle banche europee si preannuncia un po' più severa, ma non come da molti auspicato, dei test effettuati lo scorso anno su 91 banche europee (non superati da 7 istituti fra i quali però nessuno irlandese). Oggi l'European banking authority (l'Autorità bancaria europea) ha pubblicato il dettaglio della prova di resistenza del sistema bancario a scenari avversi ipotizzati, i cui risultati dovranno essere pronti il 29 aprile ma che saranno pubblicati in giugno.

L'Eba, però, ha lasciato in sospeso la definizione del ratio di solvibilità Tier 1 (indicatore principale della solidità patrimoniale). «L'esatta definizione del capitale e della soglia fissata per lo scopo dell'esercizio sarà fornita più avanti», è scritto nel documento pubblicato oggi dall'Autorità europea.

...

©RIPRODUZIONE RISERVATA



Dal sito dell'"European Banking Authority":

L'EBA pubblica i dettagli di scenari e metodologia dei suoi "stress test"
18 marzo 2011

Documenti correlati:
Panoramica
Nota metodologica
Allegato 1
Allegato 2
Allegato3 ("Macro-economic scenarios for 2011 EU-wide stress test")
Allegato4


5.4.11.2 Losses/profits on trading book (sovereign + other) after the application of shocks
5.4.11.2.1 Decomposition effects by single risk factor shock
«... funds investing primarily in real estate, will be subject to the application of a minimum “real estate haircut” equal to 10%; ...»


Errata corrige: ove scritto "baseline scenario" leggasi "optimistic scenario".

fabio
dgambera
00domenica 20 marzo 2011 09:42
Banche europee in fila per il doppio-rating

Morya Longo 20 marzo 2011


MILANO
Dopo tutte le critiche alle società di rating per aver dato voti troppo generosi alle cartolarizzazioni sui mutui Usa, arriva – beffarda – la vendetta del destino: il rating è improvvisamente diventato merce rara e preziosissima. Dal primo marzo la Banca centrale europea accetta infatti come garanzia per i prestiti alle banche solo cartolarizzazioni con due rating, per cui tutti gli istituti di credito del Vecchio continente si sono dovuti precipitare da Moody's, Standard & Poor's e Fitch per ottenere un secondo voto per le tante cartolarizzazioni che ne avevano uno solo. Il problema è che, con la ressa, negli uffici delle tre agenzie si è creato un collo di bottiglia: tante cartolarizzazioni, soprattutto di banche italiane, sono ancora in attesa del secondo voto. E questo ha creato, e in alcuni casi tutt'ora crea, seri problemi per queste banche: non potendo più usare le cartolarizzazioni mono-rating con la Bce, tante sono infatti costrette a finanziarsi a tassi elevati presso le grandi banche internazionali.
Andiamo con ordine. Negli anni passati, quando le banche faticavano a finanziarsi sul mercato interbancario a causa del crack di Lehman, è iniziata la moda delle cosiddette auto-cartolarizzazioni.
Di fatto le banche di tutta Europa prendevano i mutui, li impacchettavano in obbligazioni e – non potendo venderle sul mercato perché non c'erano investitori disposti a comprarle – le usavano per finanziarsi presso la Bce. La Banca centrale presta infatti agli istituti tutti i soldi di cui hanno bisogno, a patto che questi le diano titoli in garanzia. Ecco perché le auto-cartolarizzazioni erano diventate di moda: permettevano alle banche di "creare" obbligazioni dai propri mutui, e dunque di "costruire" merce di scambio da consegnare alla Bce per finanziarsi. Insomma, le auto-cartolarizzazioni erano come speciali "ricariche" per i "bancomat" delle banche europee presso la Bce.
Ma la Bce non è un ente di beneficienza: per evitare che le banche le consegnassero titoli spazzatura, già oltre un anno fa aveva annunciato che dal primo marzo 2011 avrebbe accettato solo bond con due rating. Le auto-cartolarizzazioni, che ne avevano uno solo, dovevano dunque prendere il secondo. Alcune banche europee si sono mosse subito, contattando già un anno fa Moody's, S&P o Fitch. Altre, invece, si sono attivate in ritardo. È il caso di quelle italiane e spagnole: soprattutto quelle di medie dimensioni. Ovvio che dalle tre agenzie si sia creato un collo di bottiglia. Fitch Italia, per esempio, in soli due mesi si è trovata a dover analizzare e valutare 13 cartolarizzazioni, quando solitamente questa mole di lavoro la svolge in quasi un anno intero.
Questa impasse rappresenta un problema. Le banche italiane, penalizzate anche dall'elevato rischio-Paese, si finanziano infatti a tassi elevatissimi sul mercato obbligazionario e faticano a trovare denari – se non per scadenze brevi – sul mercato interbancario. Il "bancomat" della Bce, dunque, per molti istituti è da almeno due anni una fonte certa ed economica di finanziamento. Avere le auto-cartolarizzazioni bloccate dalle agenzie di rating rappresenta dunque un problema, perché riduce – anche se temporaneamente – le "cartucce" disponibili per trovare finanziamenti presso la Bce.
L'alternativa è però arrivata dalla finanza: ci sono banche internazionali – sul mercato si indicano soprattutto JP Morgan o Natixis – che accettano in garanzia anche i bond mono-rating per finanziare le banche italiane. Il problema è che i tassi d'interesse richiesti risultano elevatissimi rispetto al mercato: più di un punto percentuale sopra la media. Così il cerchio ironico del destino si chiude: a guadagnare da questa impasse, oltre alle agenzie di valutazione che chiedono tra i 100 e i 150mila euro per ogni rating, sono banche internazionali
m.longo@ilsole24ore.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA

dgambera
00mercoledì 23 marzo 2011 13:41
Calano gli utili di UniCredit, ma meno delle attese. Confermata la cedola

23 marzo 2011


Utili in calo, ma meno delle attese per Unicredit che ha comunicato i risultati 2010 all'indomani dell'ok al piano di salvataggio di Fondiaria Sai. Piazza Cordusio ha chiuso il 2010 con un utile netto consolidato di 1.323 milioni in calo del 22,2% rispetto agli 1,7 miliardi di euro del 2009. Il risultato, come accennato, è migliore delle attese degli analisti che prevedevano 1,2 miliardi di euro. L'utile del quarto trimestre, il primo sotto la guida dell'ad Federico Ghizzoni, è di 321 milioni. Il dato, se confrontato con lo stesso periodo dell'anno scorso, è in calo del 13,5% ma se confrontato con il terzo trimestre dell'anno è in rialzo del 9%. Anche in questo caso il risultato è superiore alle stime del consensus. Confermata, come per lo scorso anno, una cedola a 3 centesimieuro.

Tiene il margine di intermediazione
L'andamento trimestrale si è contraddistinto per la tenuta del margine di intermediazione (somma del margine di interesse, da servizi più il risultato della gestione titoli). Il dato per il quarto trimestre è di 6.554 milioni, in aumento dello 0,9%. Il risultato è stato raggiunto grazie soprattutto alla forte dinamica di interessi netti e commissioni nette, il contenimento dei costi (-4,0% trimestre su trimestre) e rettifiche su crediti in crescita. Su tutto il 2010 comunque la voce ha raggiunto i 26,347 milioni di euro (in flessione del 5,9% anno su anno).

Commissioni in netta crescita
Le commissioni nette risultano pari a 8.455 milioni di euro nel 2010, in marcata crescita (+8,4% a cambi e perimetro costanti) rispetto all'anno precedente, con una buona ripresa delle attività di risparmio gestito ma anche un soddisfacente andamento delle altre voci commissionali.

Costi operativi ridotti
I costi operativi ammontano a 15.483 milioni di euro nel 2010, in flessione dello 0,1% rispetto al 2009. Nel quarto trimestre 2010 il dato è pari a 3.755 milioni di euro, -4,0% trimestre su trimestre. Gli interessi netti si attestano a 15.993 milioni di euro (-9,3% rispetto al 2009), Il dato è influenzato da un contesto di tassi decisamente più sfavorevole rispetto al 2009, sia pure con un graduale miglioramento verso la fine del 2010.

Aumentano crediti deteriorati e sofferenze
Non si arresta la crescita dei crediti deteriorati lordi. Un fenomeno che interessa tutto il settore del credito, a partire da Intesa Sanpaolo, primo concorrente di UniCredit. A fine dicembre 2010 la voce segna 67,4 miliardi, +3,4% trimestre su trimestre. L'aumento è dovuto soprattutto al mercato italiano. L'area CEE rimane stabile e la Germania mostra un decremento su base trimestrale. Le sofferenze lorde crescono del 2,5% trimestre su trimestre. Le altre categorie di crediti problematici lordi sumentano del 4,5% trimestre su trimestre.


Salgono gli accantonamenti su rischi e oneri
Nel corso dell'esercizio 2010 il gruppo ha contabilizzato 362 milioni di rettifiche di valore su avviamento, riconducibili quasi interamente al Kazakistan, di cui 199 milioni a carico del quarto trimestre 2010 e 162 milioni nel secondo trimestre 2010. Gli accantonamenti per rischi e oneri sono saliti a 766 milioni nel 2010 (da 609 milioni del 2009). La voce include 425 milioni di accantonamento a fronte di una singola posizione in Germania e un rilascio di 118 milioni di accantonamenti dovuti ad impegni contrattuali su un fondo immobiliare dissolto nel trimestre stesso (con contestuale registrazione di -116 milioni tra i profitti netti da investimenti).

La patrimonializzazione
Confermata la solidità dello stato patrimoniale con il coefficiente Core Tier 1 ratio si che attesta all'8,58%. La voce mostra un decremento trimestale di 3 punti base, principalmente dovuto alla crescita degli attivi ponderati per il rischio che, nel quarto trimestre 2010 sono aumentati dello 0,3% a 454,8 miliardi. Il Tier 1 ratio si attesta al 9,46% ed il Total Capital Ratio al 12,68%.

©RIPRODUZIONE RISERVATA



Intesa Sanpaolo lascia invariato il dividendo. Migliora la patrimonializzazione, calano gli utili

15 marzo 2011


Utili in calo del 3,6% nel 2010 per Intesa Sanpaolo, che ha comunicato al mercato i risultati consolidati al 31 dicembre 2010. La voce per il 2010 è di 2,7 miliardi di euro. L'utile normalizzato è di 2,32 miliardi, in linea con il 2009. Il consiglio di gestione proporrà all'assemblea la distribuzione di un dividendo, invariato, di 8 centesimi alle azioni ordinarie e di 9,1 centesimi alle risparmio, per un monte-cedole di 1 miliardo di euro.

Nel 2011 stimata la ripresa dei ricavi
Nel 2011 Intesa SanPaolo ritiene di poter «registrare, rispetto al 2010, una ripresa dei ricavi, un contenimento degli oneri operativi e una riduzione del costo del cattivo credito, con un conseguente miglioramento della redditività dell'operatività ordinaria».

La patrimonializzazione
La banca ha registrato proventi operativi netti pari a 16,62 miliardi di euro, in flessione del 5,9% rispetto ai 17,65 miliardi del 2009. Migliorano i coefficienti patrimoniali alla fine del 2010 risultano, applicando le regole di Basilea 2, pari al 7,9% per il Core Tier 1 ratio (7,1% al 31 dicembre 2009), al 9,4% per il Tier 1 ratio (8,4% a fine 2009) e al 13,2% per il coefficiente patrimoniale totale (11,8% a fine 2009), calcolati tenendo conto della proposta di distribuzione di un miliardo di euro di dividendi. Gli indici patrimoniali, precisa la nota della banca, sono stati calcolati tenendo conto della proposta di distribuire 1 miliardo di euro in dividendi e applicando le regole di Basilea 2 foundation e i modelli interni ai mutui residenziali e al portafoglio corporate e deducendo il valore nominale delle azioni di risparmio.

Aumentano i crediti deteriorati
Il complesso dei crediti deteriorati del gruppo Intesa Sanpaolo al 31 dicembre 2010 ammontava, al netto delle rettifiche di valore, a 21,2 miliardi, in aumento del 3,7% rispetto all'anno prima. In aumento a 7,3 miliardi i crediti in sofferenza da 5,3 miliardi di fine 2010, con un'incidenza sui crediti complessivi dell'1,9% (1,4% un anno prima) e un grado di copertura del 64% (dal 67%) che sale però al 123 considerando anche le garanzie reali e personali relative alle sofferenze. Gli incagli sono invece scesi a 9 miliardi dai 10,3 miliardi di fine 2009 mentre sono aumentati i ristrutturati a 3,3 miliardi (da 2,2 miliardi) e i crediti scaduti/sconfinati, che ammontavano a 1,5 miliardi (da 2,4 miliardi).


©RIPRODUZIONE RISERVATA


dgambera
00mercoledì 23 marzo 2011 13:52
laplace77
00mercoledì 23 marzo 2011 14:07
Re:
dgambera, 23/03/2011 13.41:



Calano gli utili di UniCredit, ma meno delle attese. Confermata la cedola


23 marzo 2011

...

Aumentano crediti deteriorati e sofferenze
Non si arresta la crescita dei crediti deteriorati lordi. Un fenomeno che interessa tutto il settore del credito, a partire da Intesa Sanpaolo, primo concorrente di UniCredit. A fine dicembre 2010 la voce segna 67,4 miliardi, +3,4% trimestre su trimestre. L'aumento è dovuto soprattutto al mercato italiano. L'area CEE rimane stabile e la Germania mostra un decremento su base trimestrale. Le sofferenze lorde crescono del 2,5% trimestre su trimestre. Le altre categorie di crediti problematici lordi sumentano del 4,5% trimestre su trimestre.


...




Intesa Sanpaolo lascia invariato il dividendo. Migliora la patrimonializzazione, calano gli utili


15 marzo 2011

...

Aumentano i crediti deteriorati
Il complesso dei crediti deteriorati del gruppo Intesa Sanpaolo al 31 dicembre 2010 ammontava, al netto delle rettifiche di valore, a 21,2 miliardi, in aumento del 3,7% rispetto all'anno prima. In aumento a 7,3 miliardi i crediti in sofferenza da 5,3 miliardi di fine 2010, con un'incidenza sui crediti complessivi dell'1,9% (1,4% un anno prima) e un grado di copertura del 64% (dal 67%) che sale però al 123 considerando anche le garanzie reali e personali relative alle sofferenze. Gli incagli sono invece scesi a 9 miliardi dai 10,3 miliardi di fine 2009 mentre sono aumentati i ristrutturati a 3,3 miliardi (da 2,2 miliardi) e i crediti scaduti/sconfinati, che ammontavano a 1,5 miliardi (da 2,4 miliardi).


...






nelle banche aumentano i crediti in sofferenza,
tra i costruttori aumentano i fallimenti:



ci sara' un nesso?

sara' questo nesso la famosa bolla immobiliare che da noi non esiste?

[SM=g1747522] [SM=g1747522] [SM=g1747522]


dgambera
00giovedì 24 marzo 2011 16:38
Il governo britannico pronto a vendere le azioni di Rbs e Lloyds per fare cassa

di Nicol Degli Innocenti 24 marzo 2011


LONDRA - Il Governo britannico, il giorno dopo la nuova manovra finanziaria, vuole incassare: secondo voci non confermate, Londra sarebbe pronta a vendere le quote di Lloyds Banking Group e di Royal Bank of Scotland che sono in mano al Tesoro in seguito al salvataggio delle due banche durante le crisi finanziaria.

L'obiettivo sarebbe raccogliere circa 66 miliardi di sterline per riempire i vuoti forzieri di Stato prima delle prossime elezioni previste nel 2015. I proventi della privatizzazione delle due banche permetterebbero al Governo di ridurre le tasse e avviare altre misure popolari in vista del voto, scrollandosi di dosso l'appellativo di ‘coalizione dei tagli'.

Secondo le voci Londra metterá prima all'asta la sua quota del 41% in LLoyds, costata 20,3 miliardi di sterline e a seguire, probabilmente nel 2014, la quota dell'83% di Rbs costata 45,5 miliardi al Tesoro. Gli acquirenti piú probabili sono investitori istituzionali e anche privati e non i fondi sovrani. Le due banche oggi non hanno voluto commentare, mentre il Governo ha confermato l'intenzione di privatizzare Lloyds e Rbs ma non i tempi.

Ieri il premier David Cameron ha detto in Parlamento che il momento di vendere verrá, ma "non è adesso", mentre il vicepremier Nick Clegg ha sottolineato che l'importante è che il Governo ricavi una netta plusvalenza dalla vendita. Gli analisti prevedono che Rbs torni all'utile giá quest'anno e Lloyds possa anche raddoppiare gli utili annuali a 4,1 miliardi di sterline nel 2011

©RIPRODUZIONE RISERVATA

dgambera
00domenica 27 marzo 2011 11:22
Ora si parla di "primo urto della crisi finanziaria" e di "Spagna che chiude la stalla dopo che i buoi sono scappati". Sta arrivando mi sa

Anche dal Tesoro l'invito alle banche a rafforzarsi
dgambera
00lunedì 28 marzo 2011 00:27
La stampa irlandese: stress test sulle banche meno negativi del previsto

di Leonardo Maisano e Beda Romano 27 marzo 2011


di Leonardo Maisano
LONDRA – Negli uffici delle banche irlandesi il lavoro continua anche nel week end per analizzare i dati degli stress test che Dublino pubblicherà giovedì. I ceo di Allied Irish bank, Bank of Ireland, Irish Life & Permanent and Ebs sono stati convocati dal governatore Patrick Honohan per informative sui risultati dell'analisi sullo stato patrimoniale degli istituti di credito. In altre parole – secondo fonti di Dublino –gli stress test sono già noti e secondo le stesse fonti darebbero esiti non estremi.

Nonostante ciò i rischi di un haircut sui senior bond non garantiti sono tutt'altro che fugati. Oggi è stato il ministro dell'agricoltura di Dublino Simon Conveney in un'intervista alla tv di stato Rte a farlo intendere. «Una soluzione di lungo periodo per le banche passa per la ricapitalizzazione ma anche per una condivisione delle perdite... In questo i mercati sono più avanti di noi perchè hanno scontato la prospettiva di una misura a carico dei senior bond non garantiti». Si tratta di 16 miliardi di euro in carico a banche diverse. Se la decisione colpisse gli istituti ormai interamente nazionalizzati come Anglo Irish sarebbe poco sorprendente, ma se fosse estesa ad Allied Irish e Bank of Ireland avrebbe conseguenze diverse. L'haircut è misura che la Banca centrale europea non accetta di buon grado e non è escluso che le dichiarazioni di Conveney mirino proprio a forzare il negoziato in corso fra Dublino e Francoforte. Punto centrale dei destini della trattativa sono gli stress test che, come detto, potrebbero essere meno negativi di quanto previsto.

Esisteva il timore - e secondo molti osservatori continua a sussistere – che i 35 miliardi di previsti dal piano di salvataggio messo a punto da Unione europea e Fondo monetario non fossero sufficienti. Che, cioè, il buco fosse molto più ampio. Le voci, non confermate, riportate dalla stampa irlandese indicano invece che i numeri potrebbero essere più contenuti attorno ai 20-25 miliardi di euro. Dieci, infatti, sarebbero necessari per Aib, meno di 5 per Bank of Ireland e qualche altro miliardo per Irish Life e Ebs. Si tratterebbe però di esiti non definitivi perché a dare retta alla fonte riportata da Irish Independent «c'è ancora molto da fare…c' è stato dato un numero, ma anche l'opportunità di contestare i presupposti che portano a quella cifra». Per questo il lavoro continua nel week end in stretta collaborazione fra la Banca centrale irlandese e gli istituti coinvolti. I risultati ufficiali saranno resi noti giovedì 31 marzo. In quell'occasione cadrà, probabilmente, anche il velo sulle non confermate «nuove iniziative» della Banca centrale europea per garantire sul medio periodo liquidità più stabile alle banche europee.

Una misura che in base alle notizie che rimbalzano dal Dublino sarebbe ritagliata apposta sulle necessità delle banche irlandesi. Ipotesi, per il momento in quanto non ci sono conferme ufficiali e pesa il sospetto di "forzature" irlandesi per indurre le istituzioni europee a garantire finanziamenti più stabili alle banche impegnate nella ristrutturazione. Il passaggio – chiave è la pubblicazione degli stress test sugli istituti del Paese. Se davvero fossero, come indicano le fonti irlandesi citate dall'Irish independent, meno estremi del temuto e quindi solidamente al di sotto dei 35 miliardi ipotizzati, per le banche di Dublino potrebbe apparire la prima luce in fondo ad un tunnel ancora molto lungo.

©RIPRODUZIONE RISERVATA



Bce pronta a nuovi prestiti all'Irlanda

di Vittorio Da Rold e Leonardo Maisano 27 marzo 2011


di Vittorio Da Rold
Jean-Claude Trichet non abbandona gli istituti di credito e prevede nuova liquidità alle banche europee, a Dublino in particolare. La Bce sta studiando i ritocchi finali a un nuovo piano di aiuti per garantire liquidità aggiuntiva alle banche europee in difficoltà, a partire dal quelle irlandesi. Lo rivelano fonti vicine all'operazione, secondo le quali il piano, che prevede tempi più lunghi per i rimborsi dei prestiti, verrà «confezionato su misura per le banche irlandesi».

Le nuove agevolazioni della Bce per le banche verranno rese note la settimana prossima, dopo i risultati degli stress test delle banche irlandesi, risultati su cui gli operatori non fanno troppo affidamento. Il meccanismo andrà a sostituire l'Ela (Emergency Liquidity Assistance) che la banca centrale irlandese garantisce alle banche e somiglierà al Smp, lo strumento adottato dalla Bce per l'acquisto di bond governativi, il piano lanciato nel maggio scorso che interviene quando mancano acquirenti per i bond governativi. In pratica la Bce compra sul mercato secondario titoli del debito pubblico dei paesi in difficoltà, facendo risalire i rendimenti. Finora è stato usato soprattutto per i bond di Grecia, Irlanda e Portogallo. Questo nuovo strumento (che ha provocato le dimissioni dell'ex governatore della Bundesbank, Alex Weber) di aiuti per le banche sarà posto sotto il controllo del consiglio direttivo della Bce, che deciderà di volta in volta le condizioni dei prestiti.

La Banca centrale europea ha in programma di dare un finanziamento a medio termine per le banche irlandesi alleviando la crisi in Irlanda, ma il prestito non risolverà il problema fondamentale della trappola del debito di Dublino.

Il primo ministro Enda Kenny può trarre un sospiro di sollievo per la decisione di Francoforte, ma ha ancora bisogno dell'Europa per tagliare i costi e prolungare la durata di un piano di salvataggio controverso Ue-Fmi poiché gli investitori devono essere ancora convinti che l'Irlanda non è a rischio default.

«È positivo per il debito sovrano ed è positivo per le banche, ma c'è ancora molto lavoro da fare», ha detto Oliver Gilvarry, capo della ricerca presso Dolmen Securities.
«Lo Stato deve ancora affrontare anche altri problemi. Il tasso di interesse e la durata del pacchetto di aiuti Ue e Fmi deve ancora essere esteso».

Gli stress test mostreranno che le banche irlandesi hanno bisogno di circa 25 miliardi di euro, poiché il debito sovrano si è quadruplicato a quasi il 100 per cento del Pil. Sopra questa soglia i paesi fanno fatica ad uscire dal circolo vizioso del pagamento degli interessi e rinnovo dei Tresury bill in scadenza.
Il nuovo piano della Bce, che dovrebbe essere presentato la prossima settimana dopo gli esiti degli stress test, dovrebbe rassicurare gli investitori che le banche irlandesi non dovranno portare i libri in tribunale.

Le cifre parlano chiaro. Il piano della Bce è un piano "su misura" per le banche irlandesi che dipendono dai finanziamenti della banca centrale per sopravvivere dopo che gli aiuti Ue e Fmi non sono riusciti a ripristinare la fiducia in un settore messo in ginocchio dai prestiti facili sui mutui.
Dopo i declassamenti di rating e più severi requisiti di garanzia, le banche in Irlanda avevano ottenuto prestiti di 117 miliardi di euro, pari a oltre il 25% di tutti i prestiti della BCE, il mese scorso.

Il piano della Bce è un piano "su misura" per l'Irlanda ha confermato il premier Kenny. In cambio di cosa? In cambio, il governo dovrà abbandonare la minaccia di infliggere perdite su alcuni detentori di obbligazioni in banche irlandesi, scelta a cui si oppone Francoforte a causa del rischio contagio. «Penso che questo accordo potrebbe diminuire la paura di una ristrutturazione del debito», ha detto Gilvarry.

L'Irlanda spera che l'ultima serie di prove di stress bancari, condotta sotto il controllo di Fmi, Bce e gli esperti indipendenti e con una soglia elevata di capitale minimo, saprà convincere gli investitori che non ci sono brutte sorprese dietro l'angolo.
In Irlanda le banche, molte delle quali sotto il controllo governativo, hanno già "ingoiato" 46 miliardi di euro in capitale dello Stato pur avendo superato gli stress test europei dello scorso anno.

Il debito dell'Irlanda è arrivato a toccare il 125 per cento del Pil entro il 2013, secondo stime Fmi. Anche versando 25 miliardi di euro, di cui 17,5 miliardi di euro presi dal fondo pensione pubbliche d'Irlanda, nelle banche, il piano metterà a dura prova un paese il cui Pil è diminuito dell'1 per cento l'anno scorso.

Con l'Irlanda che lotta per uscire da una delle peggiori recessioni del mondo industrializzato e a metà strada di un piano di tagli selvaggi, il premier Kenny è sotto pressione, politicamente e finanziariamente per ottenere concessioni da parte dell'Europa.
Il tasso medio al 5,8% in Europa per gli 85 miliardi di euro di prestiti Ue-Fmi è visto come una penalizzazione dell'Irlanda.
Ma Francia e Germania si rifiutano di offrire tutte le concessioni senza che Dublino ceda a sua volta sul suo tasso di tassazione delle società. L'aliquota del 12,5% è considerata la pietra angolare della politica industriale in Irlanda e uno dei fattori chiave della sua economia dalle esportazioni.

Se Kenny cedesse alle richieste francesi e tedesche, lui e il suo nuovo esecutivo sarebbero considerati come un fallimento indipendentemente da ciò che l'Europa dovesse offrire. Una situazione davvero difficile.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

dgambera
00lunedì 28 marzo 2011 12:40
Test sulla crisi finanziaria: le 10 banche americane più a rischio

articoli di Vittorio Carlini, Vittorio Da Rold e Leonardo Maisano 28 marzo 2011


di Vittorio Carlini
Un sasso lanciato nello stagno. La pietra va a fondo e le onde si propagano in tutto lo specchio d'acqua. Anche così può raffigurarsi il danno sistemico. Diversi gruppi finanziari, come il sasso, sono talmente grandi e correlati con i mercati che, se vanno a fondo, smuovono e danneggiano l'intero sistema. Una situazione ben nota agli operatori (Lehman Brothers docet) che i legislatori tentano di controllare, se non anticipare.

La legge Dodd-Frank (la riforma di Wall Street) ha assegnato al Financial stability oversight council (Fsoc) il compito di definire i criteri per individuare le istituzioni finanziarie a rischio sistemico. Un compito «quasi impossibile», ha commentato il segretario al Tesoro, nonché presidente del Fsoc, Timothy Geithner. Non la pensano così un gruppo di economisti capitanati dal premio Nobel Robert Engle.

Le 10 banche Usa più a rischio
Il team di esperti della Stern school of business di New York ha individuato (guarda la tabella) le 10 banche che, al 10 febbraio 2011, avrebbero potuto contribuire maggiormente al rischio sistemico. Le prime cinque di queste, BofA, Citi, MetLife, JpMorgan e Aig, «partecipano - scrivono gli economisti - per il 55% all'eventuale sottocapitalizzazione del settore finanziario nel caso di un crash del mercato».

Già, il crash di mercato. È quest'ultimo, in senso lato, il punto di partenza degli "stress test" realizzati dagli economisti. I quali hanno concentrato i loro sforzi su un particolare aspetto: definire per quanta parte, in percentuale, ogni singola società può contribuire ai maggiori costi (del rischio), nell'ipotesi di un collasso del sistema finanziario, cioè di un deficit di capitali.

Il test effettuato
Qual è il ragionamento seguito? Il procedimento si articola in tre fasi: in primis viene stimato, basandosi su serie storiche, quanto il titolo di una banca potrebbe scivolare in una seduta, a fronte di un calo del mercato di oltre il 2%; poi, tenuto conto della "reattività" individuata in precedenza, è calcolata la reazione della stessa istituzione nell'ipotesi di un più ampio ribasso del mercato (il 40%), in un periodo maggiore (sei mesi); infine, la stima della capitalizzazione andata in fumo è "mescolata" con la leva finanziaria: così si determina quanto capitale sarebbe necessario alla banca per affrontare la crisi.

Alla fine salta fuori il Srisk% (Systemic risk contribution), che indica quale percentuale, sulla perdita di capitale totale subita dal sistema, sarebbe "subita" dalla banca durante la crisi. Le società con i valori più alti «non sono solo i "biggest loosers" - sottolineano Engle e i suoi collaboratori-, bensì anche quelle che creano o espandono la crisi».

Fin qui l'analisi. Ma quale l'efficacia di simili "stress test", anche a fronte delle parole di Geithner? Gli autori, da un lato, ricordano che il loro lavoro è «in linea con i test governativi» già realizzati; dall'altro, sottolineano che «l'utilizzo dei dati di mercato permette di evitare le manipolazioni da parte delle società». Rispetto, invece, ai numeri sull'esposizione debitoria? Se è ben vero «che i dati possono essere alterati», proprio il Fsoc potrebbe usare «micro-analisi, o altre fonti», per affinare i test.

«In effetti - spiega Domenico Mignacca, responsabile del risk management di Eurizoncapital Sgr - l'analisi del rischio sistemico, in senso lato, può essere soggetta a errori. Tanto che spesso è indicato un intervallo di confidenza, all'interno del quale il dato può "muoversi"». Ciò detto, «simili valutazioni sono comunque utili. Non tanto per prevedere il futuro, bensì per mettere in guardia: individuare le società che potrebbero avere maggior bisogno di capitale».

«La definizione di valori percentuali così precise - specifica Federico de Vita, risk manager del fondo Acacia - mi lascia perplesso. Basta pensare a Lehman: nel marzo 2006 la probabilità che fallisse era stimata nulla; due anni dopo, era a un livello altissimo. Cioè, la distribuzione dell'evento cambia nel tempo. Ciononostante, lo sforzo compiuto è utile, perché accende un riflettore sul tema del rischio di sistema». Che non è solo delle banche più grandi ma anche, e soprattutto, di quelle più correlate ai mercati.

©RIPRODUZIONE RISERVATA




dgambera
00martedì 29 marzo 2011 14:34
Sento scricchiolii sinistri


Ubi trascina al ribasso gli altri bancari
«Le vendite sul settore sono state provocate dall'aumento inaspettato di Ubi che di fatto ha alzato i livelli di capital ratios delle banche italiane. Probabilmente ci si aspetta che anche altre banche facciano lo stesso», commenta un operatore. «Aumento di capitale inaspettato» titola un report di Natixis in cui viene ribadito il giudizio «reduce» con un nuovo target price di 6,4 euro da precedente 7,5. La ricapitalizzazione di Ubi «diluirà gli utili di circa il 20%», mentre i numeri sul 2010 risultano inferiori alle aspettative, si legge nello studio del broker francese.

Natixis si sofferma comunque sull'aumento. «Siamo molto sorpresi da questo annuncio. Ubi non ha Tremonti-bond da rimborsare, ha realizzato un Roe dell'1,6% nel 2010». Nomura ha abbassato il rating su Ubi a «reduce» da «neutral» con prezzo obiettivo a 7,30 da 8 euro. Anche in questo caso gli analisti definiscono l'annuncio della ricapitalizzazione inaspettato con «risultati ampiamente in linea con le nostre stime» anche se si evidenzia «un trend negativo in termini di qualità del credito». L'aumento, si legge in diversi report, porterà il Tier 1 di Ubi all'8% dal 6,95% del quarto trimestre scorso.

dgambera
00martedì 29 marzo 2011 20:33
Arrivano i botti a colori

Irlanda schiacciata dai debiti, lo Stato costretto a salvare Irish Life

di Vittorio Da Rold 29 marzo 2011


«Il cielo di Irlanda era un oceano di nuvole e luce», oggi è un oceano di bond inevasi e debiti. Nel 2000 le banche islandesi furono privatizzate e deregolamentate e allegramente si indebitarono per 12 volte il Pil del paese. Tutti sanno come è andata a finire l'avventura islandese del Mare del Nord. Le banche d'investimento sono state chiuse e tutti sono tornati a pescare il merluzzo.

Ora l'Irlanda corre lo stesso rischio, la storia si ripete. Dublino è alle corde e dovrebbe, secondo gli stress test in arrivo giovedì, ricapitalizzare di nuovo le sue banche. Come? A quel punto trasformerà i bond emessi dall'ultima banca privata in difficoltà in azioni, tutte operazioni già viste in passato e sempre a carico del contribuente, mosse che alla fine però potrebbero far andare in bancarotta lo stato irlandese. Invece Dublino questa volta dovrebbe fare come l'Islanda (non membro Ue) che, capita la lezione, a un certo punto decise di ristrutturare i senior bond (cioè non garantirli più ma fare un haircut, un taglio di capelli su capitale e rendimenti). Insomma di non metterli tutti sulle spalle dello stato, ma facendo pagare le perdite agli obbligazionisti e agli azionisti delle banche mal gestite.

Ma non andrà così, chi ha giocato sul moral hazard, sull'azzardo morale, avrà ancora una volta partita vinta. Probabilmente Dublino proteggerà ancora una volta gli obbligazionisti privati delle banche dissestate spalmando le perdite su tutti i contribuenti secondo l'adagio, "profitti privati, perdite pubbliche" o del "too big to fail", troppo grande per fallire. Ma cosa è successo di nuovo nella telenovela celtica-irlandese? Gli stress test messi in atto dalla Banca centrale d'Irlanda potrebbero costringere lo Stato a prendere il controllo dell'istituto di credito Irish Life & Permanent (IL&P), ultima banca del paese ancora completamente privata. È quanto riportato dall'Irish Times, secondo il quale, questi test servono a valutare i fondi propri di cui le banche avrebbero bisogno per sopportare eventuali perdite supplementari, in caso di crisi azionaria, di default di bond sovrani o di aumento del prezzo del petrolio. I risultati dei test, continua il quotidiano, saranno pubblicati giovedì e allora costringeranno IL&P «a cedere una partecipazione consistente allo Stato».

La sola incognita è la quota, che potrebbe essere superiore al 50%, con una nazionalizzazione di fatto dell'istituto. Una tale misura comporterebbe la quasi completa nazionalizzazione del settore bancario irlandese: sono due anni che lo Stato ha dovuto prendere il controllo di molte banche che si trovavano in profonda crisi a causa delle colossali perdite registrate sul mercato del credito e dei mutui fondiari.

Una sola banca privata. Come ricordato dal quotidiano, IL&P attualmente è la sola banca privata che non ha fatto ricorso al sostegno pubblico dall'inizio della crisi finanziaria, che ha già visto la nazionalizzazione effettiva di quattro gruppi bancari: Anglo Irish bank, Allied Irish bank (Aib), Ebs e Inbs. Lo Stato, inoltre, ha una partecipazione anche in un quinto istituto, Bank of Ireland. Questi interventi hanno fatto esplodere il deficit pubblico irlandese, arrivato nel 2010 al 32% del Pil, costringendo lo Stato a chiudere un piano di aiuto da parte dell'Unione europea e del Fondo monetario internazionale di Dominique Strauss-Kahn pari a 85 miliardi di euro. Secondo la stampa, gli stress test irlandesi (i secondi nel tempo, i primi vennero superati brillantemente al punto che si parlò di operazione di marketing, poiché le banche poco tempo dopo dovettero essere salvate) dovrebbero rivelare che i quattro istituti che li hanno affrontati hanno bisogno di capitali tra 18 e 25 miliardi di euro (compresi di 10 miliardi già previsti), una somma inferiore ai 35 miliardi previsti di aiuto alle banche nel piano internazionale di sostegno all'Irlanda.

In realtà il nuovo governo irlandese vorrebbe infliggere perdite su alcuni detentori di obbligazioni in banche irlandesi, scelta a cui si oppone la Bce di Francoforte a causa del rischio contagio. La Bce è pronta ad intervenire con un intervento di sostegno ad hoc per l'Irlanda di acquisti di bond irlandesi nel caso in cui il mercato preoccupato dal livello del debito che ha toccato il 100% del debito, potrebbe disertare le prossime aste. «Penso che questo accordo potrebbe diminuire la paura di una ristrutturazione del debito», ha detto l'economista Oliver Gilvarry, capo della ricerca presso Dolmen Securities. Ma l'ultima parola spetterà agli irlandesi, stufi di pagare con disoccupazione e mancta crescita i profitti della finanza d'assalto.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

dgambera
00sabato 2 aprile 2011 16:14
Intesa Sanpaolo alla stretta finale per l'aumento di capitale con sconto del 25-30%

articoli di Morya Longo e Cesare Peruzzi 02 aprile 2011


di Morya Longo
«Intesa Sanpaolo, in merito a un possibile aumento di capitale, comunica che la posizione del gruppo sul tema verrà resa nota al mercato a valle della riunione del consiglio di gestione e di sorveglianza in calendario per il prossimo 5 aprile». Il linguaggio è burocratico, ma il senso del comunicato è fin troppo chiaro: Intesa Sanpaolo martedì prossimo annuncerà un aumento di capitale. La cifra nel comunicato non c'è, ma le indiscrezioni convergono tutte su un numero: 5 miliardi di euro. Il «se» è d'obbligo, dato che la decisione sarà presa martedì dopo un week end di lavoro.

Ma l'effetto di questa ricapitalizzazione è già ora calcolabile: il «Core Tier 1» di Intesa Sanpaolo, cioè il parametro chiave per capire se una banca è solida, salirebbe dall'attuale 7,9% al 9,5% circa. Insomma: al termine di questa operazione da 5 miliardi l'istituto guidato da Corrado Passera avrà una solidità patrimoniale degna di una banca d'interesse sistemico. Il problema, a quel punto, sarà per le altre banche rimaste indietro.

La decisione sull'operazione è ancora da prendere. Ma un orientamento su qualche dettaglio ci potrebbe già essere. Dietro le quinte, si sta per esempio lavorando per formare il consorzio di garanzia. Oltre a Banca Imi, che avrà il ruolo di capofila, alla partita dovrebbero prendere parte gruppi internazionali come Deutsche Bank, Morgan Stanley, Goldman Sachs e forse Ubs. Qualche indicazione di massima arriva inoltre sul possibile prezzo. L'aumento di capitale potrebbe prevedere uno sconto intorno al 25-30% del cosiddetto Terp, cioè il prezzo teorico delle azioni Intesa dopo lo stacco dei diritti. Fare il calcolo ai valori di Borsa di ieri sarebbe fuorviante (le azioni Intesa hanno chiuso a 2,11 euro dunque risulterebbe un prezzo intorno a 1,48 euro), perché la decisione sul prezzo verrà presa dal consiglio di gestione solo dopo l'assemblea straordinaria. L'assise verrà convocata solo martedì dai consigli di Intesa Sanpaolo. E, indicativamente, si dovrebbe tenere nella seconda settimana di maggio. Dunque il prezzo verrebbe deciso solo dopo, ai valori di Borsa di quel momento. Da sciogliere c'è poi il nodo delle azioni di risparmio, che per le nuove disposizioni Bankitalia non vengono più conteggiate nel «Core Tier 1»: verranno convertite in ordinarie? Oppure verranno aumentate anche loro?

Ma a parte i dettagli tecnici, sciolti e ancora da sciogliere, resta da rispondere a una domanda: perché Intesa Sanpaolo, che già aveva coefficienti di solidità patrimoniali adeguati e che aveva sempre smentito l'ipotesi di aumenti di capitale, sente la necessità di effettuare un'operazione del genere? Probabilmente, dopo le esortazioni al Forex del Governatore di Bankitalia Mario Draghi, intende spostare in alto l'asticella della sua solidità. Basilea 3 chiede di avere un «Core Tier 1» almeno al 7%. Il mercato pretende almeno l'8%. Per le banche grandi, quelle di interesse sistemico, potrebbe venire chiesto fino al 10%. Così, prima degli stress test e prima che a rafforzarsi siano gli istituti esteri, Intesa gioca d'anticipo. Come ha fatto Ubi. Il problema, a questo punto, riguarda le altre banche. Per esempio UniCredit: l'istituto di Piazza Cordusio ha già un «Core Tier 1» all'8,6%. Alto. Fino a une settimana fa perfetto. Ma se Intesa arrivasse al 9,5%, il mercato sarebbe portato a considerare il coefficiente di UniCredit non più così "perfetto". E il problema riguarda a catena un po' tutti gli istituti di credito: più si alza l'asticella dei coefficienti patrimoniali, più tutti i "concorrenti" dovranno saltare in alto.

LA PAROLA CHIAVE
Terp - Il Theoretical ex right price, o prezzo teorico ex diritto di un titolo, è il prezzo teorico di un'azione dopo lo stacco del diritto di opzione relativo a un aumento di capitale. Il medesimo concetto è applicato anche ai diritti di opzione per la sottoscrizione di obbligazioni convertibili.




Fondazione Mps pronta a indebitarsi

di Cesare Peruzzi 02 aprile 2011


FIRENZE. In queste ultime settimane, i vertici della Fondazione Monte dei Paschi hanno fatto la spola con il ministero del Tesoro, a Roma. Oggetto degli incontri riservati, sollecitati dai manager senesi: l'eventuale modalità di adesione a un aumento di capitale di Banca Mps, di cui si parla da tempo, e in particolare la possibilità di ricorrere all'indebitamento per far fronte alla propria quota di pertinenza, costituita dal 45,7% dei titoli ordinari e dal 55% della totalità delle azioni(comprese le privilegiate).

I tempi per dare il via all'operazione si stanno accorciando: la convinzione di molti osservatori è che una decisione sarà presa prima dell'assemblea di bilancio di Montepaschi, in programma il 29 di aprile. Se i nodi verranno sciolti nelle prossime ore, potrebbe essere addirittura questione di giorni, anche se il progetto non figura all'ordine del giorno della prossima riunione che il consiglio d'amministrazione terrà giovedì 7. Il consenso politico in sede locale c'è, manca solo la decisione sull'entità della manovra e sul livello di adesione del maggior azionista. È di questo che si discute.

Gabriello Mancini e Marco Parlangeli, presidente e direttore generale della Fondazione, sono tra l'incudine e il martello: da una parte c'è la banca guidata da Antonio Vigni e presieduta dal leader dell'Abi, Giuseppe Mussari, che punta a rimborsare 1,9 miliardi di Tremonti-bond per proseguire nell'opera di rafforzamento patrimoniale e liberare risorse (il costo in bilancio dei T-bond è di 160 milioni all'anno); dall'altra ci sono le istituzioni senesi, Comune e Provincia, principali referenti della Fondazione, che non vogliono perdere la "presa" sul gruppo di Rocca Salimbeni.

«Siamo pronti a valutare ipotesi di aumento di capitale, ma non a diluire la nostra partecipazione», aveva detto Mancini a febbraio. Tutto ruota intorno alla cifra: l'aumento sarà di 2 oppure di 1,5 miliardi? Nel primo caso, accettando di scendere al 51% del capitale complessivo della banca, la Fondazione si troverebbe a dover sborsare almeno un miliardo, la metà del quale potrebbe arrivare dalla cessione di una parte dei titoli privilegiati, in portafoglio per 1,4 miliardi (le azioni ordinarie sono in carico a 3,3 miliardi), in modo da non scendere al di sotto della fatidica soglia del 51% del capitale complessivo.

I restanti 500 milioni, che nel caso la manovra fosse di soli 1,5 miliardi si ridurrebbero a 250 milioni, non possono che arrivare dallo smobilizzo di altri investimenti oppure da finanziamenti esterni. Il Tesoro, secondo quanto risulta al Sole 24 Ore, non vedrebbe di buon occhio il ricorso al debito. La strada delle dismissioni, invece, si scontra con lo scoglio delle inevitabili minusvalenze. Nella cassaforte della Fondazione senese è custodito l'1,9% di Mediobanca, lo 0,42% di Intesa Sanpaolo, l'1% della Sator di Matteo Arpe, il 2,57% di Cassa depositi e prestiti, il 5,7% del fondo F2I, il 36% di Fontanafredda e il 31,6% dell'immobiliare Sansedoni.

A valori di mercato, oggi le quote in Mediobanca e Intesa Sanpaolo valgono un centinaio di milioni ciascuna. Saranno cedute? Mancini e Parlangeli hanno detto in più occasioni che la partecipazione nella banca di Piazzetta Cuccia è strategica (ma a Siena non la pensano tutti così), mentre lo 0,42% di Intesa Sanpaolo è da tempo tra gli asset smobilizzabili. La verità è che, dopo aver sborsato 3 miliardi per seguire l'aumento di capitale con cui nel 2008 Banca Mps rilevò Antonveneta, e dopo che nel triennio 2008-2010 i dividendi in arrivo da Rocca Salimbeni non hanno superato complessivamente i 160 milioni (di cui 100 relativi all'ultimo esercizio), la Fondazione si trova a dover affrontare un passaggio cruciale.

Il Monte è stato riorganizzato e i numeri dicono che la strada imboccata è quella giusta (985,5 milioni di utile netto nel 2010 e cedola di 167,7 milioni). Ma serve un rafforzamento patrimoniale e, soprattutto, è prioritario rimborsare il debito con il Tesoro. A giugno ci sono i nuovi stress test bancari. In questi giorni, invece, a fare il check up è la Fondazione.


dgambera
00domenica 3 aprile 2011 22:37
dgambera
00domenica 3 aprile 2011 23:27
Mps verso la ricapitalizzazione

Cesare Peruzzi 03 aprile 2011



FIRENZE - L'incontro decisivo sarà mercoledì prossimo al ministero del Tesoro. La Fondazione Monte dei Paschi sta per affrontare uno dei passaggi più difficili della sua giovane esistenza da quando, nel 1995, ha scorporato e conferito l'attività creditizia in Banca Mps. Accompagnerà l'azione di rafforzamento patrimoniale del gruppo di Rocca Salimbeni senza diluire in modo significativo il pacchetto di azioni in suo possesso (45,7% del capitale ordinario e 55% di quello complessivo). E lo farà anche a costo d'indebitarsi.

Il silenzio che su questo punto si avverte a Siena, città storicamente pronta a prendere posizione, soprattutto in una fase pre-elettorale (a maggio viene rinnovato il consiglio comunale, istituzione determinante per tracciare le linee d'indirizzo della Fondazione), è indicativo del grado d'incertezza del momento. Nessuno dei protagonisti in gioco vuole pronunciarsi.

Il sindaco uscente, Maurizio Cenni, dipendente del Monte in aspettativa, da qualche mese rientrato in banca con un orario di lavoro part time, un paio d'anni fa aveva chiesto alla Fondazione una maggiore diversificazione del portafoglio, troppo concentrato sul settore bancario (il titolo Montepaschi, in bilancio a un valore di 4,8 miliardi, rappresenta da solo l'86,8% del patrimonio contabile).

L'input politico, naturalmente, è sempre stato di non scendere sotto il 50,1% nel capitale della banca: «Le nostre colonne d'Ercole», come disse una volta il presidente della Fondazione, Gabriello Mancini. Dal 2008 a oggi, cioè dall'operazione Antonveneta che alla Fondazione costò 3 miliardi, la direzione di marcia è stata però contraria. Per giunta in una fase di dividendi calanti (164 milioni complessivi nell'ultimo triennio). Adesso si profila un nuovo impegno economico per circa un miliardo e, forse, la necessità di chiedere un finanziamento esterno.

Sulla base del proprio statuto, la Fondazione Mps può indebitarsi fino al 20% del patrimonio, cioè esattamente per un miliardo e, nel limite del 10% del patrimonio, addirittura con lo stesso Montepaschi. La questione è all'ordine del giorno, ma alla fine è probabile che la richiesta di denaro fresco non superi i 2-300 milioni. Il resto (tra 500 e 700 milioni) arriverà dalle disponibilità liquide e dagli investimenti immediatamente smobilizzabili. È la prospettiva di queste ore, alla vigilia della settimana che si preannuncia decisiva sul fronte del rafforzamento patrimoniale delle banche, Monte dei Paschi compreso, il cui aumento di capitale sarà con ogni probabilità nell'ordine dei 2 miliardi, sufficiente cioè a coprire la restituzione anticipata dei Tremonti-bond (1,9 miliardi che rientreranno al Tesoro già nel 2011).

La strada più lineare per la Fondazione sarebbe quella di cedere una parte del pacchetto di azioni privilegiate Montepaschi, pari al 10% del capitale complessivo della banca, e magari anche qualche altra partecipazione non strategica, come lo 0,42% di Intesa Sanpaolo, a sua volta soggetto al prossimo aumento di capitale da 5 miliardi del gruppo milanese, che per Siena vorrebbe dire un ulteriore esborso di 21 milioni.
© RIPRODUZIONE RISERVATA



Fondazioni in campo, conto alla rovescia per l'aumento di Intesa - Mps verso la ricapitalizzazione

di Alessandro Graziani, all'interno articolo di Cesare Peruzzi 03 aprile 2011


di Alessandro Graziani

MILANO - Le grandi Fondazioni azioniste di Intesa Sanpaolo si schierano a fianco della banca e sono pronte a fare anche più della propria parte nell'aumento di capitale da 5 miliardi, che Cà dè Sass porterà all'esame dei consigli di gestione e di sorveglianza convocati per martedì 5. Già lunedì potrebbero riunirsi gli organi amministrativi di Compagnia Sanpaolo e Fondazione Cariplo per un pre-esame dell'eventuale ricapitalizzazione, che in ogni caso sarà poi esaminata compiutamente solo dopo che martedì il board di Intesa Sanpaolo avrà preso la delibera ufficiale.

Il consiglio di sorveglianza presieduto da Giovanni Bazoli convocherà poi l'assemblea straordinaria dei soci per chiedere la delega da assegnare al board. A questo punto l'assemblea si terrà in contemporanea con quella di bilancio, che dunque slitterà a metà maggio. Da quel momento in poi, il consiglio avrà la delega e potrà eseguire l'operazione che, dunque, si terrà presumibilmente a giugno. Il prezzo, che in linea con le recenti emissioni dei competitor europei sarà a sconto del 25-30% rispetto al Terp, sarà determinato alla vigilia della partenza dell'operazione.

Per le Fondazioni non si tratterà di un esborso di poco conto. Ipotizzando che venga confermata un'operazione da 5 miliardi, per Compagnia San Paolo (che ha il 9,888%) l'esborso ammonterebbe a poco meno di 500 milioni. Per la Fondazione Cassa Padova e Rovigo (4,924%) la sottoscrizione peserà 250 milioni, importo più o meno analogo a quello di Fondazione Cariplo (4,68%). Investimenti lievemente significativi per Ente Cassa Firenze (che con il 3,378% dovrebbe versare 169 milioni) e Fondazione Carisbo (2,734%, pari a 137 milioni). A queste Fondazioni (che in tutto hanno circa il 25%) se ne aggiungono poi molte altre con quote minori. Non tutti i piccoli enti hanno risorse per sottoscrivere pro-quota la ricapitalizzazione. Così come, ed è il problema principale, potrebbero non esercitare i propri diritti di opzione due azionisti di rilievo come Credit Agricole (4,99%) e la Carlo Tassara di Roman Zaleski (2,5%).

Per motivi diversi, entrambi i soggetti hanno in programma la cessione della quota. Nel caso dell'Agricole su esplicita richiesta dell'Antitrust, nel caso della Tassara nell'ambito degli accordi di ristrutturazione del debito con le banche (accordo che addirittura vieta nuovi investimenti). A queste due quote si aggiungono poi quelle delle Generali (4,97%), che considerano la partecipazione finanziaria e dunque "dismettibile". Ma non hanno urgenza di vendere e potrebbero anche decidere di sottoscrivere, mediando il prezzo di carico.
In ogni caso, le due quote di Agricole e Zaleski (7,5%) più quelle delle Fondazioni minori (almeno il 2,5%) portano almeno al 10% i diritti già inoptati in partenza. Ovvero a 500 milioni la quota che non sarà sottoscritta. Su questa quota starebbero lavorando le grandi Fondazioni, per verificare la fattibilità di rilevare i diritti inoptati attraverso un veicolo societario che, in gran parte, si finanzierebbe a debito (ripagando gli interessi con i dividendi, sul modello di Effeti in Generali). Operazione non banale, che in ogni caso necessiterebbe dell'autorizzazione del Ministero dell'Economia.

In ogni caso, l'operazione sul capitale di Intesa Sanpaolo sarà assistita da un consorzio di garanzia composto dalle principali banche statunitensi (oltre a Bofa-Merrill Lynch, in lizza anche Morgan Stanley, Goldman Sachs e J.P. Morgan). Forse già entro il week end, d'intenso lavoro per tutto il team dell'amministratore delegato Corrado Passera, il consorzio di collocamento e garanzia potrebbe essere chiuso, in modo che tutto sia pronto per la delibera dei consigli Intesa di martedì. Il giorno dopo, in caso di effettiva approvazione, l'operazione sarà presentata al mercato insieme al nuovo piano industriale triennale che delineerà i target reddituali, con focus sui costi. Attesa dal mercato anche la soluzione che sarà individuata per le azioni di risparmio (1,7 miliardi ai valori di Borsa di venerdì), che dallo scorso 31 dicembre Bankitalia non conteggia più nel Core Tier 1.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

dgambera
00martedì 5 aprile 2011 22:56
Via libera all'aumento di capitale di Intesa Sanpaolo: 5 miliardi di euro, obiettivo core tier 1 al 10%

05 aprile 2011


Il consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo «ha approvato all'unanimità» un aumento di capitale da 5 miliardi. Lo ha riferito un consigliere all'uscita dalla sede della banca al termine dell'ultimo consiglio della giornata. A tutti gli azionisti, anche a quelli di risparmio, verranno offerte in opzione azioni ordinarie, ha riferito il consigliere. L'approvazione dell'aumento di capitale da parte del consiglio di sorveglianza è stata preceduta da quella del consiglio di gestione che, a quanto si apprende, ha deliberato anch'esso l'operazione all'unanimità.

I consigli di Intesa sono rimasti «in conclave» per tutta la giornata. Dopo aver approvato, in una prima doppia riunione mattutina, le linee guida sulla retribuzione dei manager e il bilancio 2010, nel pomeriggio si sono nuovamente rinchiusi nelle stanze di Cà de Sass per esaminare il piano industriale e l'aumento di capitale, oggetto di approvazione unanime da parte degli organi della banca.

I dettagli verranno resi noti domani con un comunicato in prima mattinata dopodichè Passera illustrerà gli obiettivi del prossimo triennio alla comunità finanziaria. Lunedì i vertici della banca saranno al Lingotto di Torino per presentare a oltre mille dirigenti, e a seguire ai sindacati, il piano e l'aumento.

Il core tier one salirà al 10%
Grazie al maxi-aumento il «Core Tier 1» di Intesa, l'indice che rappresenta il capitale di più alta qualità di una banca, arriverà «al 10%» (attualmente al 7,9%), ha detto il consigliere Riccardo Varaldo, intercettato durante una pausa dei lavori. Intesa Sanpaolo, ha spiegato, vuole «fare prima cose che gli altri dovranno fare dopo, per avere anche un vantaggio competitivo». Ora si tratterà di vedere che effetto avrà l'operazione sulla valorizzazione di alcune partecipazioni, come Fideuram ed Eurizon, da cui la banca si attende altri 150 punti di Core tier 1. Dettagli che emergeranno domani nel piano industriale dal quale sono attesi anche interventi importanti sul fronte dei costi per difendere la redditività della banca.

Azioni a sconto del 25-30%
Le azioni, secondo le attese del mercato, saranno offerte con uno sconto del 25-30% sul Terp (il prezzo teorico dei titoli dopo lo stacco del diritto di opzione) per invogliare le sottoscrizioni. A tutti i soci, inclusi gli azionisti di risparmio, verranno assegnati titoli ordinari così da rendere più incisiva la manovra sul patrimonio (le azioni di risparmio non sono conteggiate nel core tier 1). Pronto un consorzio di garanzia composto da 12 banche con Banca Imi e Bofa-Merrill Lynch global coordinator e joint bookrunner, affiancate da Goldman Sachs, Morgan Stanley, Deutsche Bank e Credit Suisse in qualità di joint bookrunner e da Unicredit, Hsbc, Commerzbank, Citigroup, Santander e Bnp Paribas come co-bookrunner. In tarda serata ha fatto al sua comparsa nella sede di Intesa proprio il top manager di Merrill Lynch, Andrea Orcel.

Fondazioni in prima linea per sottoscrivere l'aumento
Le grandi fondazioni azioniste di Cà de Sass, che raggruppano oltre un quarto del capitale della banca, sono pronte a fare la loro parte sottoscrivendo pro-quota l'aumento. Ma sarebbe allo studio anche un veicolo, partecipato dagli enti, per sottoscrivere l'inoptato che Tassara (2,5%), Credit Agricole (4,79%) e alcune fondazioni minori potrebbero lasciare sul terreno. Carifirenze (3,37%) ha un consiglio giovedì per un primo esame dell'operazione. Sabato l'aumento sarà sul tavolo, per un'informativa, del consiglio generale della Compagnia di Sanpaolo (9,88%). Con l'inizio della prossima settimana toccherà alla Cariplo (4,68%), il 12 aprile, valutare l'operazione per chiudere con Cariparo (4,92%) e Carisbo (2,73%). Generali (4,97%), dopo aver sciolto i legami di bancassurance con Cà de Sass, deciderà sulla base della convenienza economica.

A Piazza Affari il titolo Intesa Sanpaolo ha chiuso invariato la seduta.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

dgambera
00mercoledì 6 aprile 2011 11:47
Il gioco del pollo e la prova di forza

di Pierpaolo Benigno 06 aprile 2011


Gli economisti che si occupano della teoria dei giochi lo chiamano il gioco del pollo. La sfida fra due contendenti che, alla guida delle rispettive automobili, si lanciano a velocità folle verso uno scontro frontale. Se entrambi non cedono, si ha lo scontro. Chi invece sterza per primo è appunto il pollo, il codardo. Da poco più di un mese, Trichet ha deciso di entrare in questo gioco pericoloso, che vede molti antagonisti dall'altra parte. Da un lato le politiche fiscali dei governi europei, dall'altro le banche commerciali e le autorità di regolamentazione e, infine, tutte le istituzioni europee che dovrebbero risolvere questa crisi dei debiti sovrani e non lo fanno.

Domani la Bce alzerà i tassi d'interesse senza alcuna sorpresa. Ma le parole di Trichet avranno un peso importante per leggere le mosse future e daranno direzioni su ulteriori strette monetarie, a opportuni intervalli, e strategie di uscita dall'erogazione illimitata di liquidità. Sono mosse premature, molto discutibili dal lato dell'analisi monetaria. La ripresa in Europa non è per ora così forte e neppure omogenea da motivare un rialzo dei tassi. Ci sono troppi problemi, troppe divergenze.

Solo il gioco del pollo può essere una spiegazione plausibile. È questa una battaglia fra la politica monetaria e tutto il resto, e non si gioca affatto per combattere quel poco d'inflazione che vediamo o che vedremo, ma per il controllo di un campo: la capacità della politica monetaria di controllare in maniera libera il meccanismo di trasmissione, di alzare e abbassare i tassi per rispondere alle condizioni cicliche dell'economia al fine ultimo della stabilità dei prezzi.

Controllo che è anche condizione principe per l'indipendenza dell'autorità monetaria. Trichet sta anticipando i tempi perché vuole riprendersi lo strumento di politica monetaria, il tasso d'interesse, quando un domani gli servirà veramente. Il controllo della politica monetaria si è perso perché la Bce si trova in una trappola della liquidità all'incontrario, dove non è proprio opportuno alzare i tassi. L'inopportunità di un rialzo dei tassi dipende dall'uso improduttivo della liquidità.

Dopo Lehman Brothers, ci eravamo convinti che il sistema bancario avrebbe imparato la lezione di non sottovalutare i rischi, che i mercati finanziari sarebbero stati regolamentati a perfezione. Invece il subprime europeo, il problema dei debiti sovrani, si è sviluppato tutto dopo Lehman Brothers, quando le banche hanno riversato la liquidità ricevuta nei titoli di Stato europei invece che verso investimenti produttivi. Il rialzo dei tassi mostra ora le crepe del sistema. Scopre l'insostenibilità dei debiti pubblici europei, creando un circolo vizioso fra debiti pubblici, attivi bancari e problemi di capitalizzazione degli intermediari.

Ma se questo rialzo è così inopportuno, perché Trichet fa una scelta così folle? Per riconquistare il controllo del campo perduto e vincere la sfida, deve fare in modo che gli antagonisti siano i primi a sterzare. Mettere in luce il problema delle banche e dei governi li pone nella scomoda condizione di trovare una soluzione. In effetti, da quando Trichet ha annunciato il rialzo dei tassi, la crisi dei debiti sovrani si è acuita in Grecia e Irlanda fino a comprendere ora il Portogallo. Il problema della sottocapitalizzazione delle banche è diventato molto più pressante in tutta Europa come in Italia. Iniziano a farsi i conti sul vero valore degli attivi dei bilanci bancari.

Tuttavia manca ancora una risposta seria al problema della sostenibilità dei debiti pubblici. Forse perché è saggio aspettare per permettere al sistema bancario europeo di rafforzarsi per resistere all'urto. Altrimenti nessuno sarà disposto a ricapitalizzare le banche per poi sostenere perdite certe, in caso di ristrutturazione dei debiti sovrani. Il rialzo dei tassi della Bce punta tutto verso questa direzione. Con l'apprezzamento dell'euro, il rigore fiscale, la crescita bassa non ci sono molti margini per giudicare ancora sostenibile la posizione debitoria di Irlanda, Grecia e Portogallo.

Quanto più Trichet spingerà il piede sull'acceleratore, tanto più urgente sarà risolvere il problema dei debiti e delle banche in Europa. Ma la mossa di Trichet è veramente credibile? Dipende dall'effettiva capacità degli antagonisti di sterzare in tempo. L'inerzia nel prendere decisioni a livello europeo, che è sotto gli occhi di tutti, ci suggerisce che il volante della macchina degli antagonisti di Trichet è in effetti un po' bloccato. Se non riescono a cambiare direzione allora Trichet dovrà cedere, senza portare a casa il risultato desiderato e dopo aver inflitto costi notevoli alle economie europee. Da oggi si accettano scommesse su chi sarà il pollo di questo gioco.

pbenigno@luiss.it
© RIPRODUZIONE RISERVATA



Intesa presenta il piano industriale e prevede un utile netto di 5,6 miliardi nel 2015

di Vittorio Carlini 6 aprile 2011


Due giornate intense, cruciali per Intesa Sanpaolo. Ieri il Consiglio di Gestione e quello di Sorveglianza hanno deliberato di proporre all'assemblea un aumento di capitale da 5 miliardi di euro che permetterà di raggiungere, da subito, circa il 10% di Core tier 1 ratio e la stessa percentuale di Common equity ratio entro il 2011. Oggi, è stato presentato alla comunità finanziaria il piano industriale triennale (approvato ieri).

Le stime su profitti e proventi operativi
Nel piano di impresa 2011-2013/2015 il gruppo bancario indica diversi obiettivi. I proventi operativi netti sono fissati a 19,6 miliardi tra due anni e a 21,7 nel 2015. Si tratta di una stima di crescita basata su uno scenario prudente, con un tasso «di incremento medio annuo del Pil dell'area euro all'1,3% per il 2011-2013 ( +0,8% nell'Italia) e all'1,6% per il 2011-2015 (+0,9%)». Se si ipotizza, però, uno scenario leggermente migliore (Pil in rialzo dell'1,7% nel 2011-2013 e dell'1,8% per il 2011-2015) «i proventi operativi netti potrebbero risultare superiori di circa 1-1,3 miliardi nel 2013 e di circa 1,3-1,5 nel 2015». Sul fronte dei profitti, invece, Intesa Sanpaolo prevede un risultato netto che nel 2013 dovrebbe raggiungere 4,2 miliardi di euro, per poi passare a 5,6 miliardi nel 2015;


Dal punto di vista degli indicatori, la banca di Ca' de Sass ha come obiettivi:
un cost/income del 46,7% al 2013 e al 43% nel 2013;
le rettifiche nette/crediti dovrebbero esere a 61 punti base nel 2013 e 56 nel 2015;
la raccolta sugli impieghi clientela è stimata scendere da 104% (2013) a 103% (proiezione nel 2015);
infine il common equity ratio passerà, anche grazie all'aumento di capitale da 5 miliardi, dal 7,1% (pro-forma nel 2010) al 10% nel 2013 e 2015.

Le strategie di Intesa
Nel piano industriale 2011 2013/15 Intesa Sanpaolo ribadisce le sue strategie "classiche". La conferma di banca focalizzata sull'economia reale: la crescita dell'investment-banking, la cui incidenza sui ricavi del gruppo sale dall'8% del 2010 al 9% del 2013, ma non del proprietary trading che mantiene una rilevanza molto bassa (sotto l'1% dei ricavi nel 2013).

L'Italia rimane centrale
La focalizzazione geografica: «le attività internazionali -scrive Intesa- cresceranno, ma l'Italia rimarrà il Paese di riferimento poiché è un mercato con notevole potenziale». Il modello organizzativo: è confermato il sistema organizzativo a livello sia di Gruppo (divisionale e non a matrice) sia di banca dei Territori.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Questa è la versione 'lo-fi' del Forum Per visualizzare la versione completa clicca qui
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 20:20.
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com