Swap, in Italia conto da 52 miliardi
di Marcello Frisone e Laura Serafini 1 maggio 2011
È un dato quasi certo: i disastri dei derivati ingegnerizzati nel mondo anglosassone non sono stati "importati" dalle banche italiane nei propri bilanci, come invece è successo a tanti altri istituti di credito stranieri. È altrettanto quasi certo, però, che le grandi banche italiane non hanno resistito ai lauti profitti consentiti da altri derivati Over the counter (Otc, scambiati cioè fuori da mercati regolamentati) di "copertura" contro il rialzo dei tassi di interesse venduti a enti territoriali, imprese, società finanziarie e piccoli istituti di credito nostrani. Al 31 dicembre scorso, infatti, le perdite potenziali sui derivati Otc del "sistema Italia" nei confronti degli istituti di credito (italiani e quelli esteri con filiali nel nostro paese) sono di 52,2 miliardi di euro. È questa cioè la cifra complessiva che i sottoscrittori di questi contratti dovrebbero versare ai grossi istituti di credito operanti nel nostro paese nel caso in cui decidessero (oppure fossero costretti a farlo) di chiudere anticipatamente gli swap.
Adesso, parlare di derivati "tossici" in Italia, così come lo si è fatto per quelli delle banche straniere che hanno portato alla crisi finanziaria del 2008 è improprio; ma si può tranquillamente parlare di vita "intossicata" per le migliaia di imprese (ma anche enti locali e società finanziarie) che stanno lottando giorno dopo giorno (o meglio semestre dopo semestre) con le rate da pagare sugli swap (sulla cui efficienza i tribunali si stanno man mano esprimendo), con la crisi economica nonché con la spada di Damocle dell'attuale valore di mercato negativo dello swap che con molta probabilità lo sarà anche alla scadenza tra qualche anno. Ma andiamo con ordine.
Il buco potenziale
Come detto, le perdite potenziali complessive sui derivati ammontano a 52,2 miliardi. La variazione rispetto al trimestre precedente è del 31% (da 75,8 miliardi): questo dato può essere imputato per la maggior parte alla effettiva materializzazione delle perdite dovuta alla chiusura dei contratti e per il resto dalla variazione dei tassi d'interesse. I dati tratti dalla base informativa pubblica di Bankitalia non finiscono mai di stupire sul "fenomeno" derivati (swap sui tassi d'interesse e, in minima parte, sui tassi di cambio): il calo del 31% del periodo ottobre-dicembre 2010 è notevole ma è anche il primo così consistente dal 2005; bisogna dire che anche l'aumento del 26% nel trimestre aprile-giugno è stato sorprendente. Insomma, in pochi mesi la variazione di 23,6 miliardi è davvero una cifra enorme.
Rischi e costi occulti
Dai dati Bankitalia si trae un'altra considerazione: esiste un rischio di controparte (improbabile ma non impossibile) per le banche di ben 52,2 miliardi e che nel corso di sei anni (dal 2005 vengono rese note le perdite in derivati in Centrale Rischi di Bankitalia) le perdite sono man mano cresciute (erano 34,7 miliardi al 31 marzo 2005) e "scollegate" dall'andamento dei tassi di d'interesse (si veda il grafico sotto). Insomma, un mistero che potrebbe essere spiegato dalla presenza in questo valore di mercato negativo (per gli altri operatori ma non per le banche) di costi occulti, gli stessi per esempio contestati dalla Procura di Milano nel processo contro JP Morgan, Deutsche Bank, Ubs e Depfa sui derivati venduti nel 2005 al comune meneghino. Sarà l'esito del processo a stabilire chi avrà ragione nella disputa sui costi occulti per 100 milioni tra banche e Procura anche se (nonostante la fattispecie sia diversa) la VI Sezione civile del Tribunale di Milano ha accertato la presenza di costi occulti nella causa tra UniCredit e il Comune di Ortona (si veda Il Sole 24 Ore del 21 aprile).
Gli enti pubblici
Questa voce evidenzia un calo del 27% nelle perdite potenziali: dai 4,6 miliardi del 30 settembre scorso scendono infatti a 3,3 miliardi a fine 2010. Gli enti in perdita però aumentano da 285 a 316 per una perdita media di 10,6 milioni a operatore. Le perdite potenziali delle amministrazioni pubbliche italiane, però, sono decisamente di più. In questi dati, infatti, non è riportato il passivo potenziale dei contratti derivati sottoscritti all'estero e con banche straniere dagli enti territoriali italiani (come nel caso del comune di Milano riportato sopra).
Le società finanziarie
Qui invece assistiamo a una diminuzione sia dei soggetti coinvolti (da 425 a 410) sia delle perdite potenziali (da 10,6 a 7,3 miliardi) con una perdita media per operatore di 17,8 milioni. In questa voce potrebbero rientrare i cosiddetti "sinking fund", ovvero i fondi che alcuni enti pubblici pongono a garanzia delle operazioni di finanziamento attuate con le banche. Il dubbio, dunque, è che la perdita degli enti locali possa essere in Italia di più dei 3,3 miliardi sopra riportati ma possa arrivare a 10,6 miliardi.
Le banche
Anche gli istituti di credito (presumibilmente piccoli) vedono diminuire le proprie perdite potenziali in derivati di un consistente 32% a 19,9 miliardi (erano 29 il trimestre precedente). «Questa è l'ipotetica cifra - spiega Rita D'Ecclesia, professore di Metodi quantitativi per le applicazioni economiche e finanziarie del Dipartimento di analisi economiche e sociali della Sapienza di Roma - che alcuni istituti di credito del nostro paese realizzerebbero se per qualche motivo fossero costretti a "liquidare" i contratti derivati in essere. Ciò accadrebbe soltanto nel caso in cui tutte le operazioni venissero chiuse contemporaneamente e in presenza di controparti con stesso grado di rischiosità».
Non si sa, comunque, se a queste perdite corrispondano altrettanti o superiori guadagni potenziali poiché questi ultimi non vengono pubblicati da Bankitalia; si sa soltanto che il sistema bancario italiano ha crediti potenziali verso il sistema economico e quindi un rischio di controparte per 52,2 miliardi.
Il «buco» delle imprese
Sono 29.804 le imprese che nei confronti delle banche italiane registrano 5,8 miliardi di perdite potenziali (-26% rispetto al trimestre precedente). A rendere la vita difficile per le imprese, dunque, non c'è soltanto la difficile congiuntura economica ma anche queste perdite potenziali che vanno comunicate in Centrale Rischi peggiorando così l'affidabilità delle aziende presso gli intermediari.
La trasparenza
«La trasparenza e la standardizzazione nella contrattazione insieme alla centralizzazione delle transazioni - sostiene Giampaolo Galiazzo della società di consulenza indipendente Tiche (così come peraltro auspicato dall'amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, Corrado Passera, si veda Il Sole 24 Ore del 27 aprile, ndr) - sono le condizioni necessarie perché i derivati sviluppino appieno le loro potenzialità positive e si possano evitare o contenere i rischi sistemici».
Più informazioni gli operatori hanno sull'evoluzione del fenomeno derivati, quindi, e più saranno in grado di fare scelte consapevoli e utili anche al sistema economico italiano. «Da questo punto di vista - continua Galiazzo – la Banca d'Italia è senz'altro all'avanguardia in Europa anche se è auspicabile che tutte le transazioni in derivati vengano tracciate, monitorate e riportate pubblicamente; è l'unico modo per evitare che, ciclicamente, gli operatori (in modo autorinforzante e autoreferenziale) inizino a "scommettere" troppo. Chi non vuole la standardizzazione e la centralizzazione - conclude il consulente indipendente - probabilmente fa parte del ristretto gruppo che dall'opacità del sistema dei derivati ha tratto grandi vantaggi economici, lasciando il conto da pagare al mondo intero».
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«Derivati, più vigilanza dalle Authority»
di Laura Serafini 1 maggio 2011
«È doveroso denunciare il problema delle dimensioni che le operazioni su derivati stanno assumendo. Soprattutto sull'opacità e sulla qualità del sottostante questi contratti, le autorità di controllo devono fare maggiori approfondimenti». Antonio Catricalà, presidente dell'Antitrust, interviene nel dibattito sui derivati all'indomani dell'indagine aperta da Bruxelles sull'ipotesi di abuso di posizione dominante nel mercato Credit default swap. «Bene ha fatto Bruxelles a intervenire. Se ci saranno aspetti che riguardano l'Italia saremo interpellati e collaboreremo con l'antitrust europeo - annuncia Catricalà -. La natura dei Cds è stata modificata: sono nati come coperture assicurative sui rischi, vengono ora venduti come prodotti autonomi che possono diventare volano della speculazione». L'Antitrust italiano, però, ha le armi spuntate in materia finanziaria. «All'indomani del crack Lehman avviammo un'indagine sulle banche italiane coinvolte, ma abbiamo dovuto rinunciare - chiosa –. Speravamo di avere un potere residuale in tema di tutela del consumatore, ma il consiglio di Stato ha sancito che le competenze in materia di trasparenza finanziaria e di applicazione della direttiva Mifid sono prerogativa della Consob». L'authority però non demorde e, laddove può, rientra in campo con le competenze sulle intese restrittive della concorrenza: è quanto sta accadendo sul caso Lehman.
Presidente, condivide l'allarme sui derivati?
È doveroso e opportuno sollecitare maggiore attenzione. Fa bene il governatore Draghi a denunciare l'esistenza del rischio e fa bene Il Sole 24 ore a tenere alta l'attenzione. Esiste un problema di opacità delle negoziazioni sui derivati e di chiarezza del sottostante. Aspetti che necessitano di maggiori approfondimenti da parte delle autorità. I crediti default swap, nati per temperare il rischio di determinati investimenti mobiliari, hanno assunto una valenza autonoma e vengono venduti in modo autonomo: la funzione originaria l'hanno persa e potrebbero costituire il volano per manovre speculative. È necessaria una stretta sorveglianza soprattutto quando i derivati sono offerti in strumenti finanziari cui possono fare ricorso anche i non addetti ai lavori.
Si riferisce agli Etf (fondi che replicano gli indici) che in parte investono in swap?
Sì. Usano i soldi dei risparmiatori, per cui il rischio per loro diventa eccessivo e ci deve essere una sorveglianza più forte, maggiore di quella che c'è stata. Ma ci vuole attenzione anche sui nuovi subprime, che hanno alla base i crediti delle carte di credito e i crediti al consumo.
Bruxelles è intervenuta sui Cds. Anche l'Antitrust italiano si muoverà su questi temi?
Noi non potevamo iniziare quell'istruttoria perché non sono coinvolte banche italiane, ma solo banche con rilevanza europea. L'Europa ha fatto bene a intervenire sul sospetto di un abuso di posizione dominante. Se l'avessimo fatto noi, saremmo andati oltre la competenza territoriale. Naturalmente se ci saranno aspetti che riguarderanno il nostro territorio, saremo interpellati e collaboreremo con l'autorità europea come abbiamo sempre fatto.
Non vi occupate di derivati nell'ambito della tutela del consumatore?
Avevamo iniziato un'indagine su tutte le banche italiane coinvolte nel caso Lehman Brothers all'indomani del default nel 2008. Speravamo che potesse rientrare nelle nostre competenze, in via residuale, in base al codice del consumo. Poi abbiamo chiesto un parere al Consiglio di Stato, che con molta chiarezza ha affermato che la competenza in materia di intermediazione e di applicazione della direttiva Mifid è della Consob. A quel punto abbiamo interrotto la nostra indagine. Per queste stesse ragioni non possiamo intervenire sui rischi per il consumatore acquirente degli Etf che investono in swap.
Sui bond Lehman ora però avete acceso un faro dopo una denuncia sull'ipotesi di intesa restrittiva a carico di Patti Chiari e delle banche consorziate
Stiamo esaminando la fondatezza di questa denuncia. Oggi è all'esame degli uffici, che stanno raccogliendo tutti i dati per verificarli prima di aprire un'indagine. Un'istruttoria comporta oneri, per cui prima di procedere bisogna avere quantomeno il "fumus boni iuris". Però ci stiamo lavorando e ne abbiamo già parlato più volte in consiglio.
I bond Lehman erano molto meno sofisticati dei derivati, eppure i risparmiatori italiani hanno perso oltre 5 miliardi di euro. È vero che quelle obbligazioni erano illiquide, ovvero difficili da rivendere, già da molto prima del default?
È quello che stiamo cercando di appurare, verificando le quantità dei bond negoziati nelle diverse date sulle varie emissioni obbligazionarie Lehman collocate in Italia. Voglio ribadire, però, che non abbiamo competenze sul fatto che sono stati collocati titoli che non avevano le caratteristiche pubblicizzate, perché questo spetta alla Consob. Possiamo intervenire solo se rileviamo una fattispecie come quella alla base dell'indagine di Bruxelles sui Cds. Se c'è stata, dunque, restrizione della concorrenza in ragione del fatto che Patti Chiari è un consorzio e che questo consorzio avrebbe dato determinate informazioni per favorire il consorzio stesso e i consorziati. In questo caso, però, le basi per aprire un'istruttoria devono essere verificate con grande attenzione e cautela, perché il tipo di contestazione che andremmo a fare è particolarmente grave: sarebbe una violazione trattato europeo e della legge del '90 sulla concorrenza.
L'Antitrust ha cercato di fare molto per aumentare trasparenza e concorrenza in campo bancario. Avete anche sollecitato lo scioglimento degli intrecci nel capitalismo italiano. Sembra, però, che tra ricorsi al Tar e reazioni del mondo bancario, alla fine siete stati un po' costretti all'angolo...
Se devo fare un bilancio, le vedo positivo. Prima che la competenza sulle banche fosse attribuita all'Antitrust c'era maggiore opacità, esisteva il diritto medievale allo ius variandi, non c'era chiarezza sul costo delle operazioni bancarie, sul costo medio del conto corrente, sui costi del bancomat, nessuno aveva mai indagato sulle di carte di credito, non c'era portabilità dei mutui. Certo sul tema centrale, quello della concorrenza, i nostri appelli ad una legge che introducesse un principio semplice, ovvero che non si consentissero gli intrecci di incarichi nei cda delle società che dovrebbero essere in concorrenza tra loro, sia bancarie sia assicurative, non sono stati ascoltati. Abbiamo chiesto al ministro per lo Sviluppo economico che fosse inserita nella legge sulla concorrenza, ma il disegno di legge non viene nemmeno approvato dal Consiglio dei ministri. La delusione la registriamo per la poca attenzione che ci viene prestata dalla politica.
È ancora convinto della necessità che Mediobanca riduca la sua quota in Generali?
Se Mediobanca e Generali continuano a sostenere che non c'è controllo di fatto di Mediobanca (che ha il 13,4%, ndr) sulla compagnia di Trieste e che invece noi riteniamo esistere, allora l'istituto di piazzetta Cuccia dovrebbe essere coerente e cedere, non una piccola quota, ma il 50% del suo investimento. Sia chiaro che l'Antitrust allo stato attuale non ha poteri per chiedere la riduzione. Certo è che un sistema delle assicurazioni e delle banche più aperto non potrebbe che arrecare un beneficio ai consumatori.
Credit Agricole, socio di Intesa, valuta se sottoscrivere l'aumento di capitale della banca quando invece ha impegni con voi per scendere sotto il 2 per cento. L'a.d di Intesa, Corrado Passera, dice che il tema antitrust ormai riguarda solo i francesi. È d'accordo?
Penso che il problema con l'Antitrust riguardi il Credit Agricole, ma anche Intesa, perché la procedura di inottemperanza, che ancora non è chiusa ma prudentemente è stata lasciata aperta, riguarda prioritariamente Intesa visto che gli impegni originari li avevano assunti loro.
Il Governatore Draghi ha sollecitato più liberalizzazioni nei trasporti e nelle infrastrutture per far ripartire la crescita. Era un vostro cavallo di battaglia, lo avete un po'abbandonato?
Le dichiarazioni di Draghi rafforzano le tesi dell'Antitrust. Mi sembrava di essere rimasto il solo a sostenere l'urgenza di una politica di liberalizzazioni. Nel settore dei trasporti è importante che sia creato un regolatore indipendente, non solo per le ferrovie. Nel settore ferroviario la presenza di incroci tra il regolatore, ovvero il ministero delle Infrastrutture, e il proprietario, il ministero del Tesoro, e la commistione presente nel gruppo ferroviario pubblico di società tra loro collegate ad una holding (quella che fa infrastrutture e quella che fa servizi sulle infrastrutture), fa sì che in Italia un'authority dei trasporti sia assolutamente necessaria. Non è un caso che l'Unione europea abbia aperto una procedura d'infrazione sulla questione. Questa authority si dovrebbe occupare anche di altri monopoli naturali, come le autostrade e gli aeroporti. L'Antitrust ha dato disponibilità, per ovviare al problema dei costi di costituzione di una nuova autorità, ad assumere in via temporanea questi poteri creando una divisione ad hoc di vigilanza, distaccata dalla divisione che si occupa di antitrust. Questa idea trova qualche consenso politico, l'abbiamo proposta per la legge sulla concorrenza, ma si tratta di capire se c'è veramente la volontà di liberalizzare.
Gli aeroporti stanno cercando di inserire, nei nuovi contratti di programma, la possibilità di allungare le concessioni. Non è un'ulteriore chiusura del mercato?
La questione non è tanto allungare o accorciare una concessione. Dovrebbe essere un'authority indipendente a stabilire, rispetto all'investimento necessario, qual è il termine equo di durata della concessione per ripagarlo. Questo non lo può fare un'autorità governativa e neanche il diretto interessato.
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